Carlo Zoli, classe 1959, figlio di uno scultore e modellatore, da oltre cinquant’anni nel suo studio nel cuore di Faenza esplora la scultura, le sue tecniche e i suoi materiali, lavorando in particolare con argilla, ceramica e bronzo. Nell’intervista qui sotto l’artista ci ha guidato alla scoperta del suo lavoro, tra mitologia classica, tradizione e incessante perfezionamento tecnico, che potete ulteriormente approfondire nel suo sito, lanciato pochi mesi fa.
«Fin da giovane, il mio tema prediletto è stato il cavallo, un soggetto che ho subito amato guardando le opere realizzate da mio padre Francesco, pittore e modellatore, che negli anni Settanta insegnava decorazione artistica all’Istituto d’Arte G. Ballardini di Faenza. È sotto la sua ala che mi sono formato e il cavallo per me è diventato una costante fonte di ispirazione, il tema-mito che si rinnova, il simbolo dell’energia che vive dentro di noi.
Da qui in poi si è aperto un mondo di temi nuovi che esplorano valori ancestrali in una commistione di storia, mitologia e leggenda. Un tema a me caro è per esempio San Giorgio e il drago, che ho ripreso più volte a distanza di anni: la rappresentazione delle paure, delle angosce e dei tormenti dell’uomo. Prediligo soggetti dal significato simbolico per narrare l’eterna lotta tra spirito e materia, sospinta costantemente da desideri, passioni, egoismi, ma anche dalla ricerca della bellezza e dell’amore. Indago la nostra anima duale, il maschile e il femminile, la guerra e la pace, la nascita e la morte; in sintesi, ho definito i due filoni del mio lavoro come ‘Tempesta’, le sfide e le battaglie che scuotono le nostre esistenze e ci fanno assaporare la vita, e ‘Quiete’, per immaginare momenti di serenità e una qualche forma di felicità. Due mostre emblematiche sono state “Un Mito nel Sogno” nel 2011 e “Viaggio nella Storia” nel 2018».
«L’argilla è la materia della creazione divina. Immergere le mani nell’argilla, modellarla fino a farle raggiungere l’esatta forma dell’immaginazione, significa infondere anima all’inanimato e, nel mentre, godere dei vuoti e dei silenzi del lavoro creativo, delle sue solitudini. L’argilla per me è metafora della grandezza e della fragilità contemporanee. Lavorarla rappresenta una lotta, dolorosa e sofferta, che porta in sé fin dall’inizio il germe della sconfitta, ma che in fondo dà un senso a questa nostra esistenza. Certi giorni m’immagino di essere d’argilla, altri sono argilla».
«Amo la definizione di ‘modellatore’ proprio perché tutto nasce dal plasmare la creta morbida e duttile; poi si passa alla prima cottura per ottenere il biscotto, alla seconda per gli smalti e per fermare l’opera nella ceramica e al “terzo fuoco” per le rifiniture finali in oro e/o madreperla. Un mestiere, quello ceramico, che se sei un artista di Faenza hai per forza nel sangue, ma la scelta di questa materia antica significa anche concepire la scultura non come mera rappresentazione bensì come creazione di un luogo fisico e mentale a sé stante: volume, forma e colore sono sostanza oggettuale con un’anima propria. In questo senso un punto di arrivo è stato nel 2013 il ciclo Le Streghe di Levone esposto alla 53ª Mostra della Ceramica di Levone (Torino), a cura di Vittorio Amedeo Sacco. I corpi delle streghe plasmati in contiguità con la creatività della natura, condizione esclusiva del femminile».
«Molte mie opere sono state trasportate in bronzo, di questa fase è per esempio la grande scultura del San Giorgio (1992), santo caro agli Estensi, un tributo a Ferrara che ho frequentato a lungo esponendo nella galleria di Francesco Pasini. Negli ultimi anni, tuttavia, ho deciso di dedicarmi solamente alla realizzazione di pezzi unici in ceramica, ricordando il bronzo nel colore delle patine e aggiungendo inserimenti a smalto, in oro zecchino e foglie d’oro. La scelta di abbandonare la fusione dell’opera nasce principalmente dall’aspetto viscerale e affettivo che instauro con il soggetto che vado a realizzare; pensare che una mia creatura possa essere oggi duplicata in serie non mi soddisfa e non mi rende felice».
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