Per me è sempre stato questo il luogo del riposo. La casa originaria, il ventre materno, il
cerchio chiuso su se stesso che abbraccia, ma che impedisce anche di vedere al di là del
mare, dell’orizzonte immane su cui il sole non può far altro che tramontare. Quando la vita a Milano diventa insostenibile – quando raggiunge quell’apice insopportabile da cui tutti vogliono scappare durante le vacanze comandate – io ripudio le colonne in autostrada verso il sud colonizzato, le ammucchiate negli stabilimenti balneari e le feste tempestate da beat riciclati dal Sud America. Io, semplicemente, torno a casa. Nella costa sud occidentale della Sardegna.
È un privilegio, certo, far coincidere le vacanze con il ritorno a casa in uno dei posti più belli al mondo. Ci penso spesso quando, al mio arrivo, poso lo sguardo sulle colline e le distese macchiate di giallo, verde e arancio che accompagnano il tragitto dall’aeroporto di Elmas ad Iglesias, la mia città di origine. Quando sento l’odore del mare che viene trasportato dal maestrale e i quieti versi animali che riempiono a intermittenza il silenzio della notte. Le finestre aperte, la luce solare che irradia un cielo dall’azzurro quasi impossibile, onirico. Le persone che amo e che mi hanno permesso di andare via, ritornare, scappare via di nuovo. Gli amici e le amiche che sembrano presenze statuarie e immobili, come i Menhir radicati nella terra, che ti aspettano e ti parlano come se non fossi mai andato via. La pace e le lucertole sulle pietre cocenti, il cibo e l’oscurità che nella notte abbraccia le distese di nulla, sopra le quali s’intravedono costellazioni e satelliti in movimento. Penso a queste cose quando galleggio nell’acqua di Masua, guardando verso l’alto.
Ma il prezzo, forse, è troppo alto. Perché dietro questo apparente privilegio si nasconde la consapevolezza che tutto può finire da un momento all’altro. Sì, le vacanze finiscono, ma non è questa la cosa più atroce. È lo sfruttamento paesaggistico, la privatizzazione che ha compromesso aree potenzialmente pubbliche, consegnandole nelle mani di facoltosi stranieri armati di yacht. Sono le forti disparità che colpiscono gli abitanti di questo posto, presi in considerazione solamente durante i mesi estivi e dimenticati durante le altre
stagioni. Sono le temperature che ogni anno diventano sempre più estreme, gli ettari di
terreno bruciati in pochissimo tempo a causa della combinazione tra l’idiozia umana e la
brutale forza del maestrale. È la crisi lavorativa che, dopo l’epoca delle miniere in cui gli
uomini rischiavano la vita per pochi soldi al giorno e la più recente storia delle fabbriche
inquinanti, molti vorrebbero risolvere attraverso una storta propaganda del turismo a tutti i
costi. Sono gli enormi appezzamenti di terra strappati alla comunità per essere utilizzati
come basi militari che mettono a rischio la sicurezza e la libertà dei sardi. L’isola, la sfera che abbraccia ma che può anche opprimere. Tornare qui significa respirare,
è vero, staccare dalla sfiancante e frenetica vita automatizzata della grande città. Ma qual è il futuro di questo posto, mi chiedo. Un tormento che fa male e che, ciclicamente, mi fa
scappare. Arriverà un giorno in cui non si potrà più fuggire, qui come altrove.
Il pensiero delle vacanze sarà un ricordo, ma forse ci abitueremo a chiamare questo luogo casa, ancora una volta. Penso a questo tormento mentre guardo la devastazione.
Ma poi arriva la fine della giornata, il sole si appresta a toccare il mare. Là, oltre il Pan di
Zucchero, il cielo si colora di rosso e le sfumature mutano, ogni secondo che passa, regalando allo sguardo colori imprevisti. Noi abbiamo un rapporto intimo con il tramonto: ogni volta che si torna abbiamo bisogno di vederlo qui, al mare. Non importa quanti ne hai
visto nella vita, non importa quanti ne vedrai in futuro. Qua tutto è diverso. Lo osserviamo
in silenzio perché non c’è bisogno di parlare. Mi rendo conto che le persone che ho accanto
non sono Menhir immobili e radicati nel terreno, anche loro si muovono e hanno le loro
vite, i loro tormenti. Eppure siamo qui, a fissare il sole che se ne va, tutti assieme. Per pochi attimi ogni problema sparisce, non ha più importanza.
Un rituale che non ha mai fine: forse è la promessa che un giorno torneremo. Esorcizzare il
dolore davanti alla cosa più semplice e comune del mondo, un tramonto. Là, oltre il mare
c’è tutto, ma noi siamo qui con i nostri ricordi e le nostre paure. E va benissimo così.