âLâarte è unâimpareggiabile occasione per entrare in contatto con altri mondi, con altri universi, con altre cultureâ scrive Osvaldo Menegaz, presidente della Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture di Castelbasso che, anche per lâanno 2022, apre allâarte contemporanea con lâidea sempre piĂš convinta che gli artisti âsono costruttori di ponti attraverso il tempo e lo spazio, porte aperte sulla possibilitĂ di ampliare la nostra conoscenzaâ. Un invito ad attraversarli ancora i ponti miracolosi degli artisti, gli unici da cui ci si possa affacciare sempre desiderosi, oltre il limite che perimetra, incuriosisce, svela e denuncia.
Questâanno a Castelbasso, a porre uno dietro lâaltro i mattoni della creativitĂ per definire stavolta un viaggio fatto di tradizione e preghiera, di memoria ancestrale e visione mitica, torna il curatore Pietro Gaglianò che, su piani temporali e geografici diversi ma affini per potenza del linguaggio, propone due progetti: Grounds dellâartista iraniana Aryan Ozmaei, visitabile a Palazzo De Sanctis, e Bagnanti, riti, mattanze dellâartista siciliano Francesco Lauretta, presente a Palazzo Clemente.
Due percorsi apparentemente distanti eppure cosĂŹ vicini nellâevocare la dimensione di una ritualitĂ salvifica richiamata come necessaria in un presente dominato dallâincertezza. Una sacralitĂ che nelle opere si legge come disarcionata dal gesto dellâuomo, violentata a tratti da una brutalitĂ invadente, infiammata dal dolore di chi vuole proteggerla. Ma, nel richiamo potente alla natura che entrambi gli artisti sottolineano, si riconosce anche la volontĂ di ricollocare il sacro in uno spazio piĂš aderente alla pelle dellâuomo. Una ritualitĂ che, nelle opere di Ozmaei e Lauretta, è soggetto principale di una narrazione legata da un lato al ricordo personale e dallâaltro a una memoria collettiva che, nei due artisti, si fa opposta per origine e luogo dâappartenenza. Ozmaei recupera la forza e la durezza vergini delle montagne iraniane che diventano scudo protettivo del ricordo familiare, ma anche fonte partoriente di una simbologia letteraria riconoscibile nelle figure del poema persiano Shahnameh di Firdusi. Lauretta, invece, in una luce abbagliante quanto festosa, in una cromia accesa caratterizzata da un uso sapiente del tratto, fa esplodere prepotente la devozione occidentale della sua Ispica, fatta di Santi, adorazioni e processioni. Unâimmersione quasi sonora nel colore che sembra sostituirsi appunto alle voci e alle nenie di chi gioisce e piange nei giorni di festa battezzati dai Santi.
Grounds di Aryan Ozmaei è un richiamo alla terra, alla grande madre primigenia che si svela ciclicamente nelle cime del monte Damavand, in cui i soggetti raffigurati sono un omaggio intimo o immaginario alla storia familiare dellâartista e alle vicende storiche dellâIran. In un percorso che può definirsi ciclico, la memoria di Ozmaei mette a dialogo lâAsia e lâEuropa e si cristallizza allâinizio nellâinterpretazione pittorica di due istantanee polaroid, in cui piani prospettici diversi suggeriscono la chiave attraverso cui osservare le tele: un tempo ciclico, appunto, non lineare, dove è il rito a scandire i ricordi che riaffiorano alla coscienza e non viceversa. Un richiamo dunque alla fluiditĂ naturale che è principio e fine allo stesso tempo, in cui il fuoco sâinnalza verso il cielo come lingua purificatrice mentre lâacqua diventa fonte di sostentamento e ristoro. Nelle opere di Ozmaei la densa matericitĂ definisce le atmosfere oniriche con colori cupi e impattanti su sfondi artificiosi, nella volontĂ sempre evidente di voler benedire la vittoria della vita sulla morte, della conoscenza sulla dimenticanza. Ă qui che lâacqua si fa fonte battesimale, specchio in cui cercare la direzione verso la luce. In Ozmaei è la memoria a garantire la vita, al di lĂ del suo manifestarsi quale segno tangibile della sua terra o tratto accennato di unâantica mitologia. Se la prima opera interroga la coscienza della stessa artista e di riflesso quella dello spettatore con lâinterrogativo âDove eravamo qui?â, nellâultima stanza di Palazzo De Sanctis lâopera âLa battaglia perpetuaâ suggerisce unâaltra domanda, piĂš che mai attuale: âPer cosa stiamo lottando?â. Ozmaei traduce con pennellate vibranti lo scontro mitologico tra lâeroe Rostam e il demone Div-e Sepid, ponendo lâaccento della vittoria della luce sullâoscuritĂ . Allâinterrogativo sotteso, forse, oggi non siamo ancora in grado di rispondere.
In Bagnanti, riti, mattanze Francesco Lauretta rievoca anzitutto la sinuositĂ di quelle che furono le donne di Picasso, Gustave Courbet e Ernst Ludwig Kirchner, come se dalla tavolozza che lâartista porta per cappello fossero sgorgati gesti precisi e taglienti con cui rileggere i maestri del passato. Ă il corpo nudo a dialogare con lâosservatore, senza alcun fingimento, attraverso le opere che lui titola âSoluzioniâ: ÂŤil colore torna umido, lucente di olioÂť, scrive Gaglianò. Lauretta sceglie di dare voce allo stesso tema delle bagnanti, anche recuperando quella che per scelta del supporto â la carta â e dei colori prevalenti â blu e oro â si potrebbe definire una cartografia medievale in cui il soggetto femminile emerge con tratti vertiginosi, senza però che si perda la spiritualitĂ che al corpo stesso lâartista consegna.
Come Ozmaei, anche Lauretta esplora la dimensione del rito, portando il visitatore dritto al cuore del mondo devozionale della sua Sicilia, tra sacro e profano. Un uso oculato della luce fa letteralmente esplodere i colori che narrano le feste patronali, le processioni dei Santi, la gioia dei credenti. Quasi un eccesso che contrasta con la cromia piĂš intima che lâartista sceglie per ricordare qualcosa di importante: al mondo câè chi prega senza clamore, senza che la gioia faccia alcun rumore. E cosĂŹ anche il dolore.
Di grande impatto lâopera immersiva Epitaffio allestita nella stanza principale di Palazzo Clemente, in cui Lauretta propone il tema della crux. Quella croce che, nelle prime rappresentazioni, fu accettata con difficoltĂ dai cristiani poichĂŠ, come scritto da San Paolo era âscandalo per i Giudei e stoltezza per i paganiâ (I Corinzi, 1-23). Inizialmente si preferiva evitare la descrizione del supplizio patito da GesĂš, concentrandosi invece sulla gloria della croce quale strumento di redenzione. In questâopera, Lauretta agisce un gesto nuovamente rivoluzionario, ponendo la croce su un piano orizzontale, rinunciando alla verticalitĂ divina che essa simboleggia. Cristo si fa nuovamente uomo nella posizione del corpo morente, seppur crocifisso. Ma lâinvito è anche quello di guardare ciò che è presente seppur nella mancanza: il cielo stellato cui Cristo tende per tornare al Padre. Un cielo che non è dipinto eppure incombe oltre il perimetro della tela, perchĂŠ lâuomo come Cristo lo cerca. PerchĂŠ âil firmamento â come scrive la poetessa Mariangela Gualtieri â è il capogiro di Dioâ.
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