-
-
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
-
Ceramica e utopia a La Solfatara: in visita allo studio di Johan Creten
Arte contemporanea
Nel quartiere Étienne Marcel, a Montreuil, comune vicino Parigi, si trova La Solfatara, ex fabbrica di metalli di 4500 metri quadri che Johan Creten, insieme all’artista francese Jean-Michel Othoniel, ha convertito a studio e fondazione. Il richiamo ai Campi Flegrei della Campania risulta particolare – dal momento che ci si trova su suolo francese – ma la ragione di questa denominazione è subito spiegata.
«La Solfatara è stata un luogo in cui le persone che intraprendevano il Grand Tour andavano a scrivere i loro poemi ed era un ambiente in cui si poteva vedere il futuro, tramite un legame con il mondo sotterraneo e con l’ignoto. L’artista Jean-Michel Othoniel lavora con il vetro, mentre io lavoro con la ceramica, quindi anche con l’argilla ed il fuoco. Per questa ragione abbiamo deciso di chiamare questo posto La Solfatara. Per sua natura è un luogo in cui possono nascere nuove idee proprio per la storia che possiede. È stato un passo importante per me avere il mio studio e lavorare qui. Un processo nuovo che ha richiesto del tempo», ci ha raccontato Creten. Così La Solfatara si fa campo di forze in cui lo slancio creativo e le qualità della materia dialogano nella produzione dei due artisti.

Per Creten è stato un passo importante mettere radici in un luogo perché, sin dagli inizi della sua carriera, ha lavorato senza avere uno studio come base fissa ma spostandosi di città in città e aprendo sempre nuovi dialoghi con la manodopera locale per realizzare le sue opere. Da cinque anni, invece, l’artista belga ha deciso di restare in pianta stabile a La Solfatara, seppur mantenendo dei rapporti con alcuni studi esterni.
Creten lavora sin dagli anni ‘80 con l’argilla che è il medium di partenza da cui nascono le sue sculture. Quando si parla delle sue opere, non ama che venga utilizzato il termine “produzione”, poiché associato a una serialità e a un approccio capitalistico che sono ben lontani dal contesto in cui nasce il suo bisogno di creare, soprattutto ricordando quanto, soprattutto agli inizi del suo percorso, sia stato molto faticoso far sì che la sua arte fosse considerata tale e non puro decorativismo estetico.
«Quando ho iniziato a lavorare con l’argilla (quindi la ceramica) erano gli anni ’80. Il problema era che l’argilla allora era considerata arte applicata, sebbene io facessi di tutto per rientrare nel mondo dell’arte, anche perché il modo in cui usavo l’argilla era più legato agli artisti concettuali. Così ho continuato a lavorare con questo medium e ora, quarant’anni dopo, ci sono molti giovani artisti che lo utilizzano. Nelle gallerie gli artisti espongono opere in argilla, è diventato quasi di moda lavorare con essa. Per quanto riguarda la produzione, non mi piace questa parola perché la si associa ad un prodotto, e l’idea che un artista produca solamente dei begli oggetti mi crea qualche problema, quindi penso più al concetto di creare, realizzare o pensare».

Creten è considerato tra i pionieri nell’introduzione della ceramica nell’arte contemporanea. A inizio carriera le sue opere non trovavano terreno fertile nel contesto del cosiddetto white cube e nemmeno nelle istituzioni: «Come artista devi trovare un luogo in cui esporre, quindi ho cominciato a proporre le mie opere in musei storici, in edifici storici, ed era un modo per mostrare il mio lavoro. Poi ci sono voluti molti anni prima di poterle esporre nel contesto del white cube. La mia prima mostra importante è stata, per esempio, in una struttura di quarantena abbandonata su un’isola nel mare. Abbiamo organizzato delle barche per portare le persone dalla terraferma a quest’isola, in modo che i visitatori potessero vedere le opere negli spazi di questa struttura. All’epoca nessuno aveva fatto questo tipo di mostre, ma il fatto è che ha creato nel pubblico un ricordo».

Associata a questa fase complessa ma anche fondamentale nella vita dell’artista, si colloca una recente mostra presso la galleria Perrotin di New York, intitolata Strangers Welcome. La mostra è la continuazione di un progetto, Le Coeur qui déborde, presentato all’Abbaye de Beaulieu-en-Rouergue e fa riferimento in modo poetico all’architettura romanica dell’abbazia del XII secolo e all’immenso bosco che la circonda. La mostra si gioca in questo ambiente di sculture recenti in ceramica, resina e bronzo che rimandano a una dimensione “oceanica”. In letteratura, la “balena bianca” rimanda al romanzo epico di Herman Melville del 1851, Moby-Dick, che segue l’ossessiva ricerca di vendetta del capitano Achab. Negli anni, la “balena bianca” è diventata sinonimo di un’ossessione perseguita senza sosta. La mostra si fa metafora degli sforzi di Creten per elevare la ceramica al livello di “arte alta” nell’ambito della scultura contemporanea.
Oltre ai luoghi convenzionali dell’arte che lo avevano respinto e incentivato ad abbracciare ambienti più antichi e perciò visualmente più affini, si aggiunge sicuramente anche il processo di realizzazione dei lavori, che implica tempistiche molto dilatate. «Per lo più lavoro a partire da schizzi, disegni e dall’argilla che in seguito lentamente si sviluppano in pezzi più grandi. È molto lavoro e richiede tempo. Nella mostra che ho realizzato quest’anno ad Orleans, Jouer avec le Feu, di cui è uscito un importante catalogo, si possono vedere disegni di progetti degli anni ’90 che sono stati realizzati solo oggi, quindi è un tempo molto lungo e non ci sono necessariamente molti pezzi. A volte credo davvero nell’idea che un’opera d’arte, se le si toglie o le si aggiunge qualcosa, diventi un altro lavoro. Mi piace arrivare a una forma condensata in un’opera».

Il Musée des Beaux-Arts d’Orléans ha invitato Creten, a marzo 2024, in occasione della seconda mostra di opere monumentali, a occupare lo spazio pubblico cittadino e le sale del museo. L’esposizione offre la possibilità di scoprire non solo il percorso dell’artista ma soprattutto il processo di realizzazione dei lavori attraverso i suoi 40 anni di carriera. Disegni, studi preparatori e varianti delle stesse sculture permettono al visitatore di entrare in contatto con il suo modus operandi. Insieme agli studi di ricerca si possono scoprire i tanti materiali, dalla ceramica al bronzo, con cui le sue sculture si esprimono. Al momento della nostra visita a La Solfatara, l’artista stava lavorando all’opera Under New Wings, una scultura di tre metri d’altezza realizzata in bronzo, materiale che ha iniziato a utilizzare negli ultimi 15 anni.

Johan Creten ha saputo aspettare e ha creduto nelle sue opere, che continua a realizzare mantenendo un approccio di perpetua analisi e leggera metamorfosi. Attraverso semplici variazioni, un’opera può mutare in qualcosa di diverso con il trascorrere degli anni. L’artista cresce e cambia tanto quanto le opere prodotte: «È l’oggetto in sé ad avere tutto il significato al suo interno».
E come può mutare la forma, può mutare anche il titolo. Basti pensare alla sua scultura Mon Petit Negre (1998 – 2000) che con il passare degli anni è mutata in Untitled. La scultura raffigura un ragazzo nero in ginocchio, leggermente ricurvo con il volto in avanti. Il titolo iniziale era una chiara provocazione di risposta alle campagne coloniali belghe ma, oggi, quel tipo di dibattito politico risulta ormai impossibile, in conseguenza del linguaggio politically correct. Il suo lavoro vuole indurre delle riflessioni politiche ma la risposta risiede sempre nell’oggetto e mai nella spiegazione ulteriori che si possono addurre.
«Questa è un’opera sulla sofferenza umana, sulla sofferenza universale, sulla storia del Belgio, sulla storia dell’arte, ma bisogna leggere l’opera su tutti questi livelli diversi. Il titolo stesso era una provocazione, ma oggi questo tipo di discussione è diventato impossibile e stranamente è diventato impossibile proprio all’interno del mondo dell’arte. È un tipo di visione del mondo dell’arte che cerca di creare divisioni dall’interno, così da controllare meglio il mondo stesso. Forse è una visione molto cupa, ma allo stesso tempo è molto positivo che questo tipo di discussione esista. A un certo punto, quando ero molto giovane, mi sono chiesto se volevo entrare in politica o meno e poi ho deciso che ero troppo un outsider per poter fare politica e ho deciso che avrei fatto il mio lavoro alle mie condizioni ragion per cui la maggior parte dei miei lavori sono pagati da me».

La scelta dell’artista belga è decisamente audace: la realizzazione delle sue opere è finanziata interamente da lui. In questo modo, rifiuta le dinamiche economiche che prevedono, ad esempio, che la galleria anticipi i costi e gli restituisca una parte dei guadagni una volta vendute le opere. Creten si distacca da queste logiche di potere. Sebbene possa sembrare un discorso utopico, questo atteggiamento gli consente di ottenere qualcosa di ancora più prezioso: la libertà.

«Il mio primo dealer fu Robert Bob Miller, che era il dealer anche di John Mitchell e Mapplethorpe un giorno mi disse: “Johan questa è la tua libertà, la libertà di fare ciò che vuoi”. È molto utopico, quindi molto rischioso. Come lavorare in un sistema mantenendo le proprie libertà? Come evolvere nel sistema? Credo che per me la cosa più importante siano le persone che supportano e comprano il mio lavoro, gli studenti che comprano i libri e le gallerie sono partner della storia. Bisogna riuscire a creare una comunità per costruire il tuo mondo».