Fino al 12 gennaio allo Spazio Siena il progetto site specific“Paesaggi eterni” di Davide Sgambaro comprende le inedite serie A chi vuol provare a fare cose, anche se male, frutto della residenza dell’artista per il progetto “Passaggi contemporanei – Exploring new edges”, iniziativa resa possibile grazie al bando PATRIMONInmovimento indetto dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena e ideato dall’Associazione Culturale Altana in partnership con Asociación Arte Útil, Associazione Culturing e Associazione Fuoricampo.
Abbiamo fatto qualche domanda all’artista in modo da percorrere insieme le diverse fasi del progetto, a partire dalla residenza nella città toscana fino alla produzione delle opere, alcune inserite nella mostra “La città di scambio” a Spazio Siena, e altre ospitate a Palazzo Sansedoni, sede della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
La prima parte del progetto “Passaggi contemporanei –Exploring new edges”, si è occupata, grazie alla tua residenza,della ricognizione di determinate zone periferiche di Siena preceduta da un focus group per lo studio delle dinamiche sociali di quei luoghi. Come si è svolta questa ricognizione? Dal tuo punto di vista in che senso il tessuto urbano delle periferie può essere inteso come passaggio contemporaneo?
«Il programma vincitore di questo bando era ben strutturato per cui quando sono intervenuto io ero già in possesso di una serie di informazioni che hanno senza dubbio velocizzato la fase di ricerca. Esattamente dal focus group, dopo una serie di visite in periferia, è emersa la suggestione alla quale poi mi sono riferito per costruire il concetto. La considerazione degli abitanti della propria casa come mero “dormitorio” mi ha fatto riflettere sul significato emotivo di “abitazione” stesso e appunto il passaggio di testimone ad altre situazioni che ne sostituiscono il valore affettivo. Proprio per questo ho voluto indagare le sensazioni degli abitanti che poi mi ha portato a riflettere sull’esodo verso il centro, mirato al tentativo di raggiungere servizi e opportunità più consone al raggiungimento dei propri obiettivi».
La tua esperienza personale, soprattutto dal punto di vista del nomadismo per quanto riguarda la ricerca di nuovi stimoli e conoscenze, ha influito sullo sviluppo della residenza e sulla tua integrazione in luoghi che non conoscevi? In che modo?
«In questo caso si parlava più di concetti come quello di percezione di casa, di come il suo significato potesse essere sostituito. Una visione notturna di “ritorno” ed “abbandono” ad e da un luogo considerato quasi imposto rispetto all’affascinante velocità di un centro. Il nomadismo era quindi scontato già in partenza in quanto si indagava sulla periferia, la sfida stava nel trovare il naturale link più specifico con la mia ricerca e i miei focus».
Come hai deciso di rielaborare le informazioni ricevute durante la residenza nel momento di progettazione dell’opera? Su cosa ti sei voluto focalizzare?
«Sono tornato a riflettere su stati d’animo di confine, sul rapporto alienante tra centro e provincia, per questo la scelta del titolo della serie prodotta a Siena: A chi vuol provare a fare cose, anche se male. Èuna sorta di eterno ritorno al pensiero di inadeguatezza che si infrange nel gap del passaggio tra provincia e città, tra agio e opportunità. Dei monumenti al rischio. L’andata e il possibile fallimentare ritorno. Per questo ho scelto di rappresentare un flash, un frammento visivo per immortalare esattamente quel punto di passaggio tra fuori e dentro. Ho immaginato quindi l’esplosione di un fuoco d’artificio che illumina distorcendo alcuni punti paesaggistici e architettonici che inevitabilmente risultano irriconoscibili e alterati, minimali e astratti e quindi la perdita di un comfort visivo un tempo considerato casalingo. Essendo un lavoro site specific rappresentato nel centro della città ho semplicemente lasciato invariato lo spazio che contiene elementi caratteristici della città di Siena come il tufo e il travertino intervenendo con elementi industriali ed importati come il ferro, il marmo e le polveri per creare uno straniamento quasi extraterrestre. I due corpi di lavori dialogano tra di loro su due livelli differenti di piani interrati, nella prima grotta sono presenti piedistalli ferrosi come delle basi di lancio per fuochi d’artificio in marmo e ottone, un’azione conclusa dove le sculture ammassate ricordano ad un evento ludico che si allaccia successivamente al piano inferiore dove sono poste in prospettiva delle vasche in ferro contenenti polveri di alluminio e plastica rappresentanti terreni astratti e paesaggi non più riconoscibili, visione di un ritorno al “dormitorio” o di un esodo verso nuove possibilità».
Come è stato dare forma al lavoro di ricerca fatto tra la residenza e la progettazione? Parlaci della produzione dell’opera
«Ho avuto bisogno di un po’ di tempo per far decantare le informazioni ricevute durante la residenza, dovevo ritornare ad elaborare il tutto e capire cosa effettivamente potesse servirmi per la realizzazione finale. Per quanto riguarda la produzione sono stato seguito da alcune aziende alle quali mi sono appoggiato per la realizzazione delle sculture. Sono stato piacevolmente colpito dalla gentilezza e disponibilità di queste persone che hanno inevitabilmente reso il lavoro a distanza più fluido e piacevole. Il mio metodo implica una fase di ricerca che poi passa alla fase di progettazione-bozzetti e successivamente alla fase di produzione. Dopo una visita alle aziende che avevo precedentemente studiato abbiamo avviato l’ultima fase di realizzazione e comunicato costantemente via mail o telefonicamente».
Come descriveresti il risultato finale di questo complesso progetto?
«È stata una sfida dover pensare a dei lavori con così tanti limiti da considerare, tra la tematica e le problematiche delle grotte in tufo ho dovuto studiare dettagliatamente i materiali che inizialmente avevo scelto per poi renderli utilizzabili per quegli spazi. Alla fine, dopo alcune peripezie, sono riuscito a realizzare ciò che avevo in mente e quindi posso ritenermi soddisfatto. Sono felice di aver prodotto una serie di lavori dedicati e conclusi che mi ricordano la produzione del 2018 di Una cosa divertente che non farò mai più, l’approccio è stato il medesimo che è sempre quello più complicato nel mediare tra prese di posizioni e racconto di una realtà tangibile dove inevitabilmente ci si sottrae minimizzandone la forma per lasciare spazio ad una libera interpretazione estremamente soggettiva. Non so per quale motivo ma continuo a pensare a queste sculture come fossero disegni».
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