Una delle più importanti gallerie milanesi, con quasi un secolo di attività (diviso in due grandi blocchi) sta per abbandonare la “casa” che l’ha ospitata per cinquant’anni esatti in via Manin: stiamo parlando di Galleria Milano, diretta per anni da Carla Pellegrini Rocca e oggi dal figlio, Nicola. Dal 9 maggio scorso, qui, è visibile quella che sarà ricordata come l’ultima mostra della galleria in questi spazi che hanno visto passare alle sue pareti i più grandi nomi del contemporaneo italiano e non solo, da Lucio Fontana ad Enzo Mari, da Lea Vergine a Fabio Mauri. Oggi “Here. Between Not-yet and No-more” è una collettiva site-specific che vuole rendere omaggio allo spazio con interventi di circa quaranta artisti che sono stati invitati a dialogare con gli ambienti e il contesto della galleria, anche in virtù della memoria di ciò che è stato. Abbiamo intervistato Nicola Pellegrini, in attesa di rivederci in una nuova sede, nel 2023…
Il primo ricordo che hai della galleria…
A parte qualche ricordo legato al giardino della Galleria quando ancora era in via Spiga, mi ricordo della mostra di Allen Jones con le sculture iperrealiste di donne nude o in costumi fetish che formano degli arredi, tavoli sedie etc. Le stesse che ha usato Stanley Kubrick nel Korova Milk Bar di Arancia Meccanica, in cui il lattepiù veniva spillato direttamente dai seni di queste donne. Immagini forti per un bambino in particolare alla fine degli anni Sessanta. Pensavo che i miei genitori fossero dei pazzi. Mio fratello Luigi, che era più grande di me, aveva poi attaccato il poster sulla porta del bagno di casa.
…Che poi cinquant’anni non sono, ma molti di più, visto che Carla Pellegrini entrò in galleria nel 1965, prendendo la direzione di una Galleria Milano che era quasi storica allora, visto che era nata ufficialmente nel 1928 anche se poi era stata chiusa prima della Seconda Guerra…ci racconti qualcosa?
La Galleria Milano è stata fondata dal critico d’arte ed editore Enrico Somarè nel ’28 e poi riaperta dai suoi figli, i pittori Guido e Sandro Somarè insieme a Aldo Bergolli, Mario Rossello e Gianni Dova, che subito chiamano mia madre per collaborare con loro e dopo pochissimi anni le lasciano in mano l’attività. Sandro Somarè è rimasto molto amico di mia madre per tutta la vita e prima di lasciare questo spazio gli dedicheremo una personale all’interno di questa mostra site-specific e context-specific. Come ti dicevo ho dei ricordi a sprazzi del periodo precedente al trasferimento della Galleria nella sede attuale, avvenuto nel 1973 con la mostra “Falce e Martello” di Enzo Mari che abbiamo ricostruito fedelmente due anni fa. Mi ricordo bene di una volta in cui ero lì e arrivò Antonio Calderara con sua moglie Carmela e attirò l’attenzione di tutti i presenti. Evidentemente anche per me avevano un fascino speciale. E poi di Luigi Veronesi che mi ospitava anche in studio e mi insegnava a disegnare. Lui e sua moglie Ginetta erano davvero molto affettuosi.
Che cosa significa questo trasloco?
È ovviamente una cosa molto dolorosa che abbiamo cercato in tutti i modi di evitare, ma alla fine non c’è stata data alcuna possibilità. Difficile emotivamente, per me che sono cresciuto lì, per Toni Merola e Bianca Trevisan che ci lavorano da tanto, e una perdita per Milano dove sparisce un altro luogo importante. Detto questo cercheremo di lasciare questo luogo positivamente, cercando di riordinare e reinterpretare questo ricchissimo archivio.
Quanto pesa portarsi sulle spalle questa immensa storia?
Ho pensato con terrore a questa incombenza fino a quando ho dovuto veramente occuparmene. Poi sono riuscito a farlo con il piacere della riscoperta e l’energia del cambiamento. Un modo anche per rivivere sia la storia di mia madre che dell’arte degli ultimi sessant’anni. Per me è anche un modo per capire come si è formata la mia identità e reinterpretare molte delle scelte che ho preso nella vita.
La lista degli artisti in mostra in “Here. Between Not-yet and No-more” è variegatissima per età, esperienze e stili…c’è in quest’ottica un’idea di linea futura?
Per questa mostra abbiamo chiesto ad alcuni degli artisti che ci sono vicini di realizzare un lavoro che si confrontasse con il luogo che dobbiamo lasciare o con la storia che abbiamo vissuto qui. Una sorta di dono o restituzione. La risposta è stata veramente commovente, dobbiamo veramente ringraziarli tutti. Pensa che Baruchello, che ha 98 anni, mi ha mandato delle istruzioni per realizzare un suo lavoro semplicemente aprendo la sua Psicoenciclopedia del possibile, pubblicata dalla Treccani, alla voce Trasloco. E lì troviamo la descrizione di un suo sogno. Sappiamo quanto i traslochi possano essere indelebili nell’inconscio. Grazia Varisco è venuta con il figlio a montare una scultura progettata per un angolo della grande sala affrescata. Ci sono poi alcuni degli artisti emersi insieme a me negli anni ’90 e altri molto più giovani. Continueremo a mettere in relazione lavori del passato con pratiche contemporanee.
Quale e come sarà il prossimo spazio di Galleria Milano?
Sarà uno spazio aperto alla sperimentazione ma anche in relazione con l’archivio della Galleria. Mi piacerebbe che fosse anche uno spazio conviviale e aperto dove poter discutere e ragionare insieme sull’arte, sul mondo e naturalmente sulla vita. Uno luogo un po’ diverso da quello che sono diventate oggi la maggior parte delle gallerie.
A proposito di storia, e archivi: c’è l’idea di poterli lasciare a qualche istituzione della città?
Vorrei che l’archivio rimanesse a Milano e abbiamo già preso contatti per farlo. Vogliamo però poterci ancora lavorare per tenerlo sempre vivo e riattualizzarlo, per ora quindi lo terremo noi.
Che cosa manca, oggi, a Milano?
La nuova sede della Galleria Milano.
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