Ricordo che diversi anni fa mi trovavo per scendere da via M. Iannelli, a Salerno, una via secondaria al di sopra di Via dei Mercanti, che, con collegamenti precedenti, arriva direttamente agli absidi del Duomo. Ebbene, in quel periodo, sul marciapiede opposto su cui transitavo vi era un locale al cui interno, in piedi, di fronte a un “piccola cattedrale”, un uomo adulto, con una lunga barba, operava in un rapporto confidenziale e paterno con quella creatura di terracotta molto alta, uno di quei suoi vasi modellati a mano, ognuno nato per essere unico. Lo guardai a distanza, lui mi guardò negli occhi, io rimasi per la mia strada e, imbarazzato, accelerai il passo. Io sapevo chi fosse, tutti a Salerno sapevano chi fosse Ugo Marano.
Quando si procede per la propria strada e si ha un percorso ben definito, un’idea chiara, ciò che gli altri percepiscono è la sicurezza di ciò che stai facendo o dicendo. In questo caso specifico, l’artista si è espresso in maniera convinta, andando a incidere la comune stagnazione, innovando la platea nel suo modo di percepire, destrutturando i contesti omologati e agendo sulla comprensione collettiva dell’immagine e dell’oggetto. La sua visione, partorita dalla propria consapevolezza, ha imposto un suo modo di pensare che è stato appreso in maniera cosciente.
A tale riguardo, l’11 settembre, presso il Complesso Monumentale dello Spirito Santo di Pellezzano, vicino Salerno, è stata inaugurata la mostra “La casa dell’angelo – 5 artisti per Ugo Marano”, programmata e finanziata dalla Regione Campania, realizzata e promossa da Scabec S.p.A. con il Comune di Pellezzano. Il progetto, curato da Marco Alfano, è costituito da 30 opere dell’artista di Capriglia, provenienti dalla collezione degli eredi, tra cui tre sculture in ferro (1968), sei vasi in ceramica di 160 cm e alcuni capolavori, come La casa dell’angelo (1984), oltre a una serie inedita di 16 progetti-disegni. E anche dalla relazione che lega cinque artisti, Paolo Bini, Antonio Buonfiglio, Federica D’Ambrosio, Cristian Leperino, Ivano Troisi, con il maestro che scelse la sua dimora dinanzi al mare di Cetara.
Proprio La casa dell’angelo è l’opera che esprime perfettamente il pensiero di Marano, rappresentando l’attivazione di tutta una serie di strategie per far sì che l’opera d’arte si liberi dal dominio della forma e dall’aura solenne, per intervenire sull’aspetto pratico e coinvolgere lo spettatore nell’utilizzo e nell’appropriazione di essa. Tramite la sua struttura flessibile e vibrante, con l’ausilio di terracotta, vetro, acqua e arbusti di erbe aromatiche mediterranee, si determina l’avviamento del meccanismo percettivo, innescato dall’utilizzo stesso dell’opera tramite la seduta, annullando il distacco con il fruitore e unendosi alla sacralità della sua funzione.
E sacri e intimi diventano anche gli interventi degli artisti invitati a omaggiarlo. Per esempio Antonio Bonfiglio, in Omaggio a Ugo Marano, si unisce a ciò che è il significato della linea e del disegno inteso come «lo spazio organizzativo della visione e del vivere». Per Paolo Bini Il mare in tondo è un’unione profonda con l’intima ricerca dell’artista dinanzi al mare di Cetara, cercando di rivivere il suo stesso “orizzonte”. Federica D’Ambrosio sottolinea la sua capacità innata di decostruire la questione utopica e il concetto di impossibilità. Con La luna nel pozzo pone l’accento sull’autodeterminazione dell’individuo, perché «l’uomo raggiunge i suoi desideri, anche i più assurdi, quando con la mente riesce a cogliere la luna giù nel pozzo».
Cristian Leperino, invece, pone su un mucchio di cocci, citando esplicitamente il “pavimento sonoro” di Ugo Marano, un Eros dilaniato dalle vicende della storia, con segni visibili della memoria, e lo innesta irto su di essi con lo sguardo che si disperde sull’ampio futuro. Infine, Ivano Troisi coinvolge gli elementi in un colloquio intimo con il genius loci, esortando i riverberi della luce e le vibrazioni dell’acqua a discorrere, sollecitate ad ogni nostro passaggio.
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