Non è impresa semplice cogliere l’essenza rituale-primordiale, più che primitiva, di Claudio Costa (Tirana 1942-Genova 1995), paleontologo sui generis in dieci impensabili creazioni degli anni Settanta e Novanta. Stefano Castelli, il curatore di una piccola e preziosa retrospettiva dedicata a un’artista–antropologo della modernità, l’ha fatto in collaborazione con l’archivio dell’artista. Personaggio meta-culturale, Costa è Cinteressato alla cultura materiale, volta al recupero di tecniche e processi arcaici originari e alla catalogazione di reperti di vissuti carichi di energia sciamanica, in parte vicina a quella di Beuys, in cui il ritorno al mito, all’elemento simbolico e anche alchemico.
Per comprendere la complessità poetica della ricerca di Claudio Costa e il suo concetto di “work in regress”, si consiglia di vedere la mostra ospitata nella galleria C+N Canepaneri (Foro Bonaparte 48, fino al 30 settembre), dove possiamo rinnovare il nostro sguardo sul presente e futuro , attraverso il recupero di riferimenti culturali insiti nella cultura rurale.
Il titolo riprende il nome del suo testo manifesto “Evoluzione-Involuzione” del 1973 , in cui si legge “È la condanna ad evolvere continuamente che segna l’uomo; quella di appartenere al futuro e di crederlo migliore” , una premessa critica sulle illusioni del progresso capitalistico e la menzogna dell’idea che il futuro sia migliore del passato. Costa ha trascorso la sua vita in Liguria, soggiornò a Parigi tra il 1964 e 1968, dove ha conosciuto Marcel Duchamp e ha partecipato ai fermenti culturali del Maggio francese.
Negli anni Settanta, in fuga dall’occidente capitalista, compie numerosi viaggi in Nuova Zelanda, Africa, quando incentra le sue ricerche verso le culture primitive, in parallelo alla propria infanzia e l’origini del mondo. L’ossessione del progresso a tutti i costi del genere umano è condannata da Costa, attraverso opere-oggetti totemici che lasciano spazio a una visione comunitaria e interculturale, in cui per progresso si intende coesistenza democratica di epoche, culture, persone, luoghi e oggetti diversi.
Interessato all’origine dell’uomo, alla paleontologia, nelle opere esposte si documenta la sua coerenza poetica e analitica insieme insita nella sua produzione, apparentemente contrastante. Per capire come per perché, Costa più che mai contemporaneo, meglio di mille parole sono le opere esposte in galleria che trasudano, ognuno a suo modo, di una misteriosa energia sciamanica, che apre nuovi sguardi sulle culture rurali. Nelle sue opere coesiste la produzione contadina con quella dei popoli definiti “primitivi”, si inscrivono in una prospettiva rigenerante di “futuribilità”, forse un suggerimento all’involuzione del progresso che stiamo vivendo nell’epoca dell’antropocene.
L’evoluzione è anche involuzione, comprende passato, presente e futuro, tre piani temporali che includono fattori individuali e collettivi che insieme generano progresso. Costa non è un passatista, semmai un pessimista attivo, consapevole che la nostra cultura, prima di essere un insieme di cose commemorabili, è un insieme di oggetti di commemorazione. Sono forme costruttive che rappresentano la sua ricerca sulla necessità dell’antimodernità, come attitudine critica , condotta in maniera reazionaria ma dialettica. Detto così, sembra tutto enigmatico, ma poi davanti a opere in cui forma e contenuto oggettivizzano il suo pensiero su i significati di materiali utilizzati come colori di una immaginaria tavolozza e processi tecnici di cambiamento; il banale si fa arte e l’alchimia, antropologia del vissuto individuale e collettivo.
Varcato l’ingresso della galleria, domina lo spazio Saltafossi (1989), una scultura su treppiede con mascella di bovino, pinza di ferro e tavola di legno trafitta da todini, in cui dimensione rurale e tribale si fondono in maniera armonica.
Sempre in questa sala, è una chicca Tela acida e Colla di pesce degli anni Settanta, realizzate con materiali non tradizionali, in cui l’acidazione della tela e delle lastre di rame introduce l’idea di trasmutazione dei materiali, un elemento che segnerà la ricerca artistica di Costa negli anni successivi. Nella seconda sala l’allestimento è magistrale, dove tre opere di grandi dimensioni perimetrano lo spazio: inquieta Spine (1968), una scultura inedita in ardesia e corda di canapa, che intrecciano le forze di gravità. Sulla parte centrale spicca Macchina Alchemica (1985), un manifesto del linguaggio di Costa, autoreferenziale, in cui catrame e legno usati per “disegnare” un alieno che rappresenta il potenziale di trasformazione. Questa figura totemica e inquietante incarna il concetto del cambiamento, è quasi un Angelus Novus, parafrasando Walter Benjamin, che include morte e rigenerazione e il concetto di modernità di ieri ,oggi e domani e le annesse problematiche. La Capanna Animale (1988), rappresenta l’attitudine etnografico/antropologico di Costa, in una composizione che sembra sul punto di sfaldarsi seppure in maniera armonica, inscena un paesaggio interiore, oltre un esotismo compiacente.
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