Si concretizza in questi giorni la restituzione del Tesoro di Behanzin al Benin, saccheggiato dal Palazzo di Abomey nel corso dell’occupazione coloniale francese a fine Ottocento e da allora conservato prima al Trocadero, dunque al Musée du quai Branly. La riscrizione dell’agenda delle capitali europee attorno allo stringente problema della repatriation è l’epilogo che la critica postcoloniale ha prodotto ridiscutendo alle radici il sistema di rappresentazione incarnato dal museo occidentale, eretto — non meno del predatorio collezionismo privato — sulle campagne di spoliazione perpetrate dalle potenze imperialiste nelle ex colonie d’America, Oceania e Africa. È quest’ultima ad aver subito il fenomeno in misura più esiziale, ritrovandosi ad affrontare l’onda lunga delle ferite inferte alla memoria collettiva del Paese e le profonde lacune identitarie derivate dalla perdita della propria eredità culturale tangibile, collocata per circa il 90% fuori dal continente.
Dell’entità di questo iato ragiona Victor Fotso Nyie, nato nel 1990 nella città camerunese di Douala e formatosi tra i laboratori ceramici di Faenza e le Accademie di Belle Arti di Ravenna e Bologna. “Rimembranza”, la sua personale a cura di Ada Patrizia Fiorillo, Massimo Marchetti e Valeria Tassinari, realizzata in site-specific per il ferrarese palazzo Turchi di Bagno in seguito all’assegnazione del primo premio Biennale Don Franco Patruno, immortala il momento della riappropriazione. Fotso Nyie la inscena rovesciando con lucida ironia la retorica coloniale e la funzione normativa che il museo intrinsecamente promulga, come figlio e custode dell’ideologia eurocentrica: l’élan vital della sua statuaria scardina il rigore tassonomico dello spazio espositivo e riavvolge il filo della diaspora, dando forma a un gruppo scultoreo dove il retroterra transculturale dell’artista si connota per la modellazione iperrealista della figura umana, la sintesi plastica dei volumi dei simulacri antropomorfi tratta dalla tradizione scultorea africana e i preziosismi dello smalto e della patina dorata, di gusto faentino e ravennate, stesi sulle terrecotte brune.
Nell’installazione ambientale cinque busti e figure intere di giovinetti sono dislocati sulla distesa di rena, colti con mirabile naturalismo nell’atto ora di custodire, ora di trafugare o ancora generare essi stessi gli idoletti dorati, simbolo della cultura d’origine. L’essere umano e la divinità qui si compenetrano, nella mimesi perfetta dei corpi su cui si innestano le statuette tribali, a comporre una visione sincretica che pare tratta dall’universo onirico ma vigile dell’autore, portavoce dell’appello di un popolo tutto.
Non solo, e forse non per caso, a un secondo livello la composizione rimanda alla tipologia allestitiva adottata in tempi recenti proprio dal quai Branly parigino, nel tentativo di liberare le cosiddette arts premiers — l’attuale variante di “primitive”— dalle ormai desuete classificazioni antropologiche ed etnografiche, in favore di una loro esaltazione puramente estetica che ha poi finito per reiterare l’annoso problema della decontestualizzazione e dell’ascrizione impropria ai crismi della storia dell’arte, disciplina non meno europea dell’etnografia e dell’antropologia stesse.
Dice Lucy Lippard che «Il più pervasivo e, senza dubbio, il più insidioso termine che l’artista di colore deve mettere in discussione è “primitivismo”». Fotso Nyie lo fa ricostruendo simbolicamente la relazione originaria tra essere umano e manufatto, apotropaica e sacrale. Così, stringendo nell’abbraccio di Observer les Étoiles l’idolo aureo e la bambina addormentata, l’artista ci ricorda la natura dell’esperienza autentica di quell’oggetto-semioforo, un’esperienza di prossimità intima, quotidiana e sensibile — altra rispetto a quella della contemplazione museale — che per visibilia ad invisibilia congiunge l’essere umano alla dimensione intangibile del patrimonio culturale proprio attraverso la concretezza materiale delle cose, venuta meno sotto lo stigma di un’espropriazione secolare.
L’operazione artistica giunge allora come espressione di un’istanza di giustizia e assunzione personale di impegno civile per le generazioni africane presenti e future, costrette a recarsi in Europa per incontrare le testimonianze del proprio passato, giocoforza alterato dall’angolazione di uno sguardo, il nostro, dalla neutralità null’altro che pretesa. L’invito a soffermarsi sull’urgenza dell’autodeterminazione e del riconoscimento riverbera nella rappresentazione plastica di Fotso Nyie, foriera del riscatto dell’Africa, ove risiede anche quello dell’Italia dall’ingombrante capitolo di storia che ci vede protagonisti dell’ultimo tentativo coloniale europeo.
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