Quanto tempo dedichiamo a guardare uno spazio? Quando ci concediamo il tempo di sostare in un luogo e assorbire le sue porosità? Siamo disposti a fissare il tempo e accettare l’esattezza del visivo a scapito della sfumatura emotiva? In Manifattura Tabacchi due mostre che, seppur frutto di diverse necessità, dialogano e si contrappongono sul tema della fissazione, del silenzio visivo che diventa architettonico e sulle stratificazioni temporali che lasciano impronte polverose e non definite. Fino al 14 novembre è visibile la mostra Massimo Listri. Fotografie in collaborazione con Gruppo Editoriale – casa editrice, presso l’edificio B11 dell’ex fabbrica. In concomitanza, fino al 10 novembre, nei suggestivi spazi della fabbrica di sigarette, prende forma il progetto espositivo Anche in un castello si può cadere, a cura di Benedetta Casini, con i lavori di Friedrich Andreoni, Lucia Cantò, Benedetta Fioravanti e Giovanna Repetto.
Massimo Listri. Fotografie è una mostra personale del fotografo fiorentino che ha portato su stampe di grande formato gli interni architettonici di luoghi che oscillano tra l’industriale, come la stessa Manifattura Tabacchi, e spazi ricchi e colorati come la Biblioteca Apostolica Vaticana e il Palazzo Ducale di Mantova. Con 19 opere si raccontano mondi e architetture sospese nel tempo, prive di brusii e asimmetrie disturbanti. Ciò che Listri sembra catturare nei suoi scatti è un’assenza di vita, di contagio, di presenza umana. Quegli spazi, solitamente attraversati da un gran numero di visitatori, appaiono attoniti, fissati nella loro atemporalità e decontaminati dalla presenza umana. Le foto mostrano un vuoto, perché lo spazio catturato lo è. Ecco allora la Sala Blu di Versailles, la scalinata della Reggia di Caserta e l’Hermitage di San Pietroburgo che diventano testimoni di una prospettiva teatrale che deumanizza e fissa una visione silenziata.
Segue Anche in un castello si può cadere, mostra finale di WONDERFUL! Art Research Program, 2024 – 1st edition Maria Manetti Shrem, che racconta di attimi fissati nel tempo, i quali però si arricchiscono di contaminazioni, con bordi confusi e sfumati. La mostra, sebbene non abbia un vero e proprio percorso narrativo, diventa un esercizio relazionale, una storia espositiva che parla di quotidianità e di diversi modi per fissare attimi. Il video di Benedetta Fioravanti, I still love U, anyway, racconta di frammenti di vita recuperati dalle zone d’ombra di Internet, di YouTube, e mostra corpi lontani, evanescenti che, seppur persi in un orizzonte tecnologico, si ritrovano e germinano nuove narrazioni dal ritmo pop, nostalgico e per certi versi anche creepy. Friedrich Andreoni fissa il tempo con What to do with our dreams?, un’installazione sonora che diventa architettura del possibile, dell’inconoscibile. L’opera diviene una traduzione alterata del canto gregoriano registrato nella basilica di San Miniato al Monte.
La fissazione sonora sgretola il linguaggio, lo esaspera e lo trasforma in un linguaggio alieno e divino. Seguono le opere di cristallo di Lucia Cantò, Coefficiente possibile, che, creando dei corpi di vetro soffiato, fissa l’aria, l’energia di quel soffio e sottolinea la volontà stessa simpoietica del vetro che incontra il soffio, generando e negando l’autopoiesi. Chiudono le opere testuali di Giovanna Repetto, Darling Tongue, che nel tentativo di catturare, fissare e conservare memoria e linguaggi, genera parole di Moxa, una sostanza utilizzata nella medicina cinese per riattivare i flussi energetici del corpo. Le sculture di parole, bruciando, imprimono la propria ombra nello spazio circostante e sembrano dar forma ad accumuli di memorie, sospese nello spazio e consacrate dal fluire del tempo. Come scrive Benedetta Casini, citando Walter Siti, «l’esattezza uccide la sfocatura, il pulviscolo inafferrabile, la scivolata del violino…».
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