L’artista Stefania Vichi riflette sullo stato dell’arte e la condizione della natura umana. La mostra Comfort Zone (fino al 3 novembre) ripercorre l’evoluzione tormentata dell’uomo verso la liberazione dalla falsa sicurezza che ingabbia la sua vita, tramite il superamento di quattro fasi: la comfort zone, la zona della paura, la zona di apprendimento e quella di crescita.
A partire dagli Horti Leonini, ci si sposta nella piazza antistante, dove un David cianotico, simbolo dell’arte e della rigenerazione data dall’apprendimento, si rigenera con l’ossigeno dato dal pubblico. Di fronte alla Collegiata, una grande gabbia dorata dal fondo specchiante ci invita a riflettere sulla comfort zone: possiamo entrarvi e uscirvi perché ne siamo le chiavi. Il percorso continua a Palazzo Chigi Zondadari, dove sono esposte numerose opere dell’artista tra installazioni, video arte e i Lex Italica, «pittosculture», così definite dal curatore Carlo Pizzichini: labirinti globulari, metafore della tortuosità della vita umana. Gabbie, cassonetti della spazzatura e una bara, ci ricordano, ancora una volta, la difficoltà a svincolarci: il cassonetto rievoca il fallimento che è parte della nostra evoluzione; la bara foderata di peluche rappresenta quella comfort zone in cui siamo circondati dai ricordi, ma siamo morti dentro.
Dal borgo di San Quirico, si giunge a una scala che specchia la Cappella di Vitaleta e che rappresenta la paura di fronte a infiniti percorsi – la campagna toscana che fa da sfondo ne è la metafora –, costellata da deflagrazioni, tentativi falliti di imboccare una nuova strada. La mostra si conclude a Bagno Vignoni con una performance di danza allestita nel giorno dell’inaugurazione, in cui l’artista ha danzato insieme a un corpo di ballo, vere e proprie «sculture in movimento», nelle vasche delle antiche terme romane, in un rituale di liberazione definitiva. Grazie alla sua forte consapevolezza, la performance si è conclusa con una nuova gabbia che calava dall’alto, simbolo del loop in cui ricade l’uomo: l’abitudine genera una nuova comfort zone, stavolta più grande ed elastica.
«Tutti abitiamo una propria comfort zone. Quando desideriamo qualcosa dobbiamo uscirne e siamo sopraffatti dalla paura e dall’angoscia. È un recinto autoimposto.» La gabbia è il simbolo di partenza di questo percorso: «solo tu hai la chiave per rispondere a cosa vuoi e cosa desideri» afferma l’artista «tanti si adagiano su risposte date e si lamentano» fossilizzandosi in un’idea di benessere protetto in contrasto con i propri desideri. Per Vichi ogni crescita è personale e ogni individuo può uscire da qualsiasi punto della gabbia in qualunque momento. Negli Horti Leonini, Comfort zonecirconda il monumento cittadino più importante: la statua di Cosimo III, nel suo giardino all’italiana, inconsapevolmente rinchiuso in un’illusione che ne delimita il basamento. L’opera, che rimanda con le sue quattro facce ai Lex Italica, nasconde un diorama speculare al giardino, popolato di pecore, metafora di chi crede di essere libero, mentre segue la massa che lo fa sentire al sicuro. Nella via d’uscita dal recinto c’è la speranza di una liberazione.
I Lex Italica sono il nucleo fondante della mostra. Il primo è stato creato nel 2020: i globi esplosi, la materia ripiegata della superficie, l’insieme di pieni e di vuoti collegano il lavoro di Vichi al Barocco napoletano, alle zone di luce e di ombra che compongono la vita, come un’elaborata cornice seicentesca. Inoltre, l’artista ha deciso di far dialogare le proprie opere con la collezione di ceramiche del padre, Enzo Vichi, chiedendo alla sua famiglia di mettere a disposizione un patrimonio che va dal ‘500 al ‘900, in cui la ceramica è «evoluzione di stili e modi» che per forme e colori possono intrecciarsi con i Lex Italica collocati alle pareti. «Vengo da una famiglia di antiquari e ho rispetto per l’arte antica. I Lex Italica hanno comunicato nelle forme e nei colori con la ceramica, in uno scambio di storia».
Le opere in mostra sono frutto di continue ibridazioni: i Lex Italica si fondono con esperimenti di video arte, perché bisogna essere camaleontici rispetto alle diverse situazioni per cui dobbiamo riuscire a trasformarci: il territorio muta l’uomo che si adatta e solo sgusciando da strade secondarie si può riuscire a sfuggire all’abitudine. Anche Vichi muta il territorio circostante: a conclusione di questa mostra, l’artista donerà una delle sue opere, come da tradizione, al museo che si andrà ad arricchire di un nuovo elemento, rompendo, come ogni anno, la gabbia che tenta in ogni modo di insinuarsi nell’arte contemporanea.
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