Visitabile fino al 2 marzo 2023, “But it did happen” è la prima mostra a firma della curatrice Giulia Gaibisso (Roma, 1993) nell’ambito della programmazione dello spazio progettuale Spazio In Situ. Il titolo della mostra è tratto da un fotogramma contenuto nel film “Magnolia”, di Paul Thomas Anderson, e allude alla necessità di far fronte alla surreale tragicità e irragionevolezza dell’esperienza umana.Le opere delle artiste e degli artisti coinvolti nella collettiva – Giorgia Accorsi, Giovanni De Cataldo, Benedetta Fioravanti, Vaste Programme, Davide Sgambaro, Federico Tosi, Italo Zuffi – si configurano come attestazioni di insuccessi, violenze e frustrazioni, o come prove di eventi surreali, connotando la mostra di un clima di tragicità comica e utopia infranta. Abbiamo rivolto qualche domanda alla curatrice, per farci dire di più sulla mostra e sulla rua ricerca curatoriale.
Partiamo dalla tua formazione. Come sei arrivata al contemporaneo e alla pratica curatoriale.
«La mia formazione è di stampo accademico. Vengo da una laurea in storia dell’arte bizantina, un percorso che può sembrare lontano dalle metodologie e gli interessi di norma associati alla pratica curatoriale contemporanea.
In ambito universitario, come è ovvio, ho dovuto adottare un approccio di carattere storico e archeologico, apparentemente limitante nell’ottica dell’elaborazione di un pensiero critico, in realtà prezioso per lo sviluppo di uno sguardo che definirei antropologico, volto a riconsiderare e riposizionare la prospettiva individuale entro un discorso più ampio, globale. Poco importa che l’artista ne sia consapevole: l’opera d’arte è anche, e sempre, il frutto di circostanze che paiono spesso ininfluenti, di dinamiche che appartengono al singolo tanto quanto all’umanità intera.
L’arte medievale tuttora mi aiuta a individuare e rintracciare temi, problematiche, comportamenti essenzialmente universali. E in un certo senso mi permette anche di guardare le “cose dal di fuori”, tentando di prescindere, o quantomeno ridimensionare il contenuto individuale e autobiografico proprio di ogni produzione artistica ma forse troppo preponderante nell’analisi critica contemporanea.
Non credo, dunque, di aver davvero stravolto il mio metodo di lavoro o i miei interessi, è più che altro mutato il contesto entro cui mi muovo e il pubblico a cui mi rivolgo. Sentivo la necessità di guardare alla contemporaneità perché sono consapevole dell’inevitabile distanza che separa lo storico dalla sua materia: un passato fatto di immagini riconoscibili, ma mai del tutto decifrabili».
“But it did happen” è la prima mostra a firma tua, come curatrice indipendente. Il titolo della mostra, così come l’atmosfera che vuoi ricreare in sala, prende ispirazione da un film, “Magnolia”. Come una scena di un film ha creato in te la suggestione per questa mostra.
«“But it did happen” è il primo progetto curatoriale che posso davvero definire espositivo: se in precedenza ho cercato di rivolgermi “all’esterno” e a un pubblico non necessariamente avvezzo alle forme e ai linguaggi dell’arte contemporanea (per esempio nel caso del progetto Circotornio ideato da Chiara Camoni e del Centro di Sperimentazione, ospitato nel parco di Monte Ciocci e potenzialmente fruibile e attivabile da qualsiasi frequentatore del parco), con questa mostra ho dovuto affrontare il vuoto dello spazio espositivo, del famigerato white cube. Nel farlo, ho cercato di assecondare il mio bisogno di trasparenza, leggibilità e coerenza nel progetto.
Come hai già specificato, il titolo della mostra è una vera e propria citazione tratta dal film Magnolia, in particolare da una scena che appare irrilevante ai fini dello svolgimento della trama, ma allo stesso tempo imprescindibile per la sua interpretazione: si tratta di un fotogramma che inquadra un piccolo foglio di carta ritagliato e incollato all’estremità inferiore di un quadro appeso alla parete, che recita “but it did happen”.
Mi piaceva ragionare su un dettaglio quasi impercettibile (eppure sostanziale) e cercare di individuarne le possibili implicazioni o interpretazioni. Subito ho pensato che la formula alludesse alla necessità di far fronte e di rispondere alla surreale tragicità e irragionevolezza connaturate all’esperienza umana; poi, in un secondo momento, mi è parso potesse rievocare quel bisogno di considerazione tipico dell’infanzia, quella necessità di essere creduti a ogni costo e a dispetto dell’assurdità dei fatti raccontati.
Ho quindi cercato di trasmettere da una parte un senso di rassegnazione e accettazione, a tratti comica, nei confronti della drammaticità della vita, dall’altra quel senso di stupore che l’arte è sempre in grado di suscitare».
Giorgia Accorsi, Giovanni De Cataldo, Benedetta Fioravanti, Vaste Programme, Davide Sgambaro, Federico Tosi, Italo Zuffi, sono gli artisti da te invitati alla mostra. Puoi raccontarci delle singole opere presentate? Ci sono nuove produzioni? Come ti sei relazionata con le artiste e gli artisti invitati? Ci saranno dei momenti di attivazione della mostra?
«Nella mostra ho cercato di giocare sul doppio filo interpretativo appena citato: le opere, quindi, corrispondono sia a vere e proprie testimonianze di insuccessi e fallimenti, sia ad attestazioni di eventi surreali, a loro modo dotati di una certa tragicità.
Se, per esempio, Virale di Benedetta Fioravanti riflette sulla pervasività e la familiarità delle immagini violente, When In Doubt Land Long di Giorgia Accorsi fa atterrare un assurdo paracadute nello spazio espositivo. Allo stesso modo, se i petardi di Fischia e verrò da te di Davide Sgambaro interrogano sull’esaurimento e la frustrazione generati da un sistema economico fondato sull’iperproduttività e la “performatività”, le opere di Federico Tosi raccontano futuri distopici formalmente e cromaticamente seducenti.
Per quanto riguarda la scelta degli artisti e delle artiste, ho optato per un gruppo eterogeneo, sia geograficamente che anagraficamente, anche per constatare una certa corrispondenza di sentimenti, tipicamente umani.
Ogni artista ha risposto all’invito in maniera davvero generosa. Diverse opere, pur ideate prima della mostra, sono state realizzate per l’occasione: penso all’intervento site-specific di Sgambaro, alla monumentale installazione dei Vaste Programme, intitolata Tutto intorno a te, o alle quattro tele che compongono Se non ti disannodi di Italo Zuffi.
Anche nel caso di opere meno recenti o già esposte, ho cercato di dare vita a una narrazione alternativa a quelle già proposte, come nel caso di Villa Mazzanti e Solo una bravata di Giovanni De Cataldo, presentate insieme per la prima volta».
La mostra avrà luogo in uno dei primi project space nati a Roma, Spazio In Situ, di cui tu sei l’unico membro con un profilo curatoriale e non artistico. Come sei entrata a farne parte e come ti relazioni con le artiste e gli artisti dello spazio? Pensi che alcune delle loro pratiche artistiche possa aver influenzato le tue scelte curatoriali o viceversa?
«Frequento Spazio in Situ dal periodo universitario, ancor prima che mi laureassi e che decidessi di intraprendere questa carriera. Pochi mesi fa, in concomitanza del cambio di direzione artistica, io e gli altri membri del gruppo abbiamo iniziato a ragionare sulla possibilità di una collaborazione, o comunque di un rapporto di natura più professionale. È difficile spiegare quale sia il mio ruolo all’interno dello spazio: quel che è certo è che occupo uno studio e partecipo alle decisioni interne, che vanno dalla programmazione all’ammissione di nuovi componenti. Propongo i miei progetti curatoriali senza vincoli, posso includere sia gli artisti di In Situ che gli esterni, come nel caso di questa mostra.
Non so se il loro lavoro abbia influenzato la mia pratica. È possibile, ma forse non è ancora del tutto rilevabile. Mi sembra però di riconoscere un allineamento estetico rispetto non solo alla loro produzione, ma anche alla storia espositiva dello spazio».
Oltre ad essere membro di In Situ, sei coordinatrice curatoriale di IUNO, spazio progettuale nato lo scorso anno dalla volontà di Cecilia Canziani e Ilaria Gianni. Come cambia il tuo ruolo all’interno dei due spazi? Che differenze trovi, in termini di pubblico e proposte di attività, tra due spazi progettuali situati in luoghi così diversi della città di Roma.
«Se è vero che entrambi i ruoli hanno a che fare con la pratica curatoriale e la gestione di uno spazio, sembrano comunque configurarsi in maniera differente, anche e soprattutto per il tipo di professionalità con cui mi relaziono.
Da IUNO, spazio di ricerca e progetto curatoriale indipendente, collaboro con Ilaria Gianni e Cecilia Canziani, punti di riferimento sia in ambito professionale che personale. La loro esperienza e vicinanza ha affinato le mie capacità, ma anche fatto emergere nuovi interessi.
A Spazio In Situ, invece, siamo tutti più o meno coetanei. Il fatto che sia l’unico membro con un profilo curatoriale, come sottolineavi nella domanda precedente, è una grande opportunità: il contatto quotidiano con gli artisti ti obbliga a superare i limiti di un approccio prettamente teorico. È risultato subito chiaro, per esempio, durante l’allestimento della mostra.
In merito alla programmazione e al tipo di pubblico, noto delle differenze che dipendono in primo luogo dagli obiettivi e dalle finalità dei due spazi. IUNO è un progetto curatoriale e di ricerca, con una programmazione che prevede commissioni d’artista così come attività didattiche. Il pubblico è ovviamente molto eterogeneo, dal/dalla bambino/a che frequenta il laboratorio, al/alla professore/professoressa che partecipa a giornate di studio o book club; Spazio In Situ è un artist-run space, quindi uno spazio di produzione e sperimentazione, che da questo anno coopta anche una curatrice. Il tipo di progettualità è dunque di natura estremamente diversa, non solo per i motivi appena elencati, ma anche per gli spazi e i quartieri che le ospitano: IUNO nasce nel quartiere residenziale di Prati ed è a tutti gli effetti un appartamento, In Situ è invece spazio espositivo e studio d’artista nel quartiere di Tor Bella Monaca, decisamente più periferico.
in questo senso entrambi si inseriscono entro contesti che non definirei propriamente artistici, ma questo è certamente un punto a loro favore, anche se implica la possibilità di una minore affluenza rispetto agli spazi (dai musei alle gallerie) posizionati in maniera più strategica rispetto a determinati itinerari culturali».
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