Sul tavolo delle riunioni che occupa la quasi totalità della sala, stanno in piedi e seduti sette giovani uomini di diverse etnie. I loro corpi, seminudi, sono intrappolati in corde che si attorcigliano alle loro braccia come liane, mentre grovigli di cavi elettrici gravano sui toraci e ricadono copiose ai piedi. Sono tutti collegati, per forza o per amore: chi tiene in mano uno smartphone, chi un auricolare penzolante dall’orecchio, chi un laptop davanti a sé, mentre i loro sguardi sono persi nel vuoto, vaganti dentro a un immaginario invisibile allo spettatore. Ma sono connessi o intrappolati? È un interrogativo che non tardiamo a porci, quando la performance raggiunge il suo climax: l’artista, unico vero interlocutore della scena, inizia a chiamare i loro nomi da un presente lontano e i giovani uomini brancolano in un buio comunicativo, impossibilitati a rispondere alla chiamata.
Capiamo che la linea è interrotta, che il telefono non prende, le grida si fanno sempre più disperate, come la voce di qualcuno che perso in una foresta abbia smarrito la strada di casa e i propri compagni di viaggio. Le voci continuano, per un lungo lasso di tempo, a rincorrersi senza incontrarsi mai. Chiamarsi e non trovarsi. È il sogno, o meglio, il sogno distopico di Thomas Falco, andato in scena all’interno degli uffici milanesi che compongono lo studio dell’avvocato Giuseppe Iannaccone, quest’ultimo costituitosi recentemente come fondazione per portare avanti il sostegno che da anni offre all’arte contemporanea. Si intitola infatti D r e a m il tableaux vivant ospitato in Corso Matteotti 11, le cui tracce – tra cui le recenti Body e Hidden (2024) Body (2023) realizzate durante il soggiorno newyorkese dell’artista – saranno visitabili su appuntamento fino all’8 luglio assieme a una selezione di opere degli anni Trenta e Quaranta appartenenti alla Collezione, tra cui la Popolana (1933) e Bambina col cane (1934) di Francesco De Rocchi, gli Amanti al parco insieme (1940) e L’uomo dal dito fasciato (1940) di Giuseppe Migneco.
«Il wrapping è sempre stato per l’artista l’espressione di un disagio esistenziale in cui siamo tutti immersi» racconta a exibart Elsa Barbieri, curatrice della performance e della mostra di Thomas De Falco e riferendosi alla pratica di avvolgere il corpo con corde e tessuti, assottigliando il confine tra performance e oggetto scultoreo. «Una storia in cui la guerra in tutte le sue molteplici manifestazioni e gradazioni – militare, commerciale, finanziaria, comunicativa, culturale, etnica, religiosa, locale, climatica – è tornata prepotentemente a occupare la scena mondiale». Si tratta di un’iper-sensibilità agli effetti della catastrofe, e al tempo stesso di una anestesia collettiva che mettiamo in atto quando non riusciamo più a sopportare la vista del baratro. D r e a m è un’opera che vive di contraddizioni e ambiguità, che si interseca nei nodi dati dagli intrecci di elementi naturali, cavi elettrici, fili e tessuti, grida, musica techno e silenzi, corpi vivi e pose plastiche. Una continua connessione che non è mai comunicazione, bensì dipendenza tossica dallo schermo. È un’attesa di rinascita che tuttavia è ancora immersa, chissà ancora per quanto, nell’immobilità.
E non meno compartecipe diventa il luogo fortemente connotato in cui tutto questo si svolge, uno Studio legale in pieno stile, con i suoi tavoli massicci e l’aspetto altero. È qui che il paradosso diventa più vero: negli stessi spazi convivono il visitatore avvezzo all’arte contemporanea e quello che non si capacita di tutti questi corpi legati tra loro. Tutto e il contrario di tutto, tutti quanti catapultati simultaneamente nella messa in scena delle nevrosi collettive al centro di questo spettacolo dionisiaco, un coup de théâtre che diventa teatro della vita. Ma che, con la sua metafora, dipinge una situazione drammaticamente reale.
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