«”Squagliare”, in questo verbo il ponte tra la tradizione e l’arte contemporanea di Samorì, che nel mentre che dipinge figure tipiche di una tecnica antica, le attualizza nel suo negativizzarle, nel togliere loro materia, quasi si sciogliessero. Si squagliano, appunto», Francesco Imperiali di Francavilla. Entrare nel museo del tesoro di San Gennaro è un’esperienza senza precedenti. Più ricco del tesoro della corona d’Inghilterra della regina Elisabetta II e di quello degli zar di Russia, si tratta di un unicum, anche per la sua paternità, il popolo napoletano, che ogni anno rinnova il suo contratto di devozione col Santo, attraverso il miracolo del sangue. Quest’ultimo elemento è il leitmotiv che circola nei lavori di Nicola Samorì, invitato dalla Deputazione della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro a realizzare un progetto espositivo per la sacrestia del Duomo di Napoli. Luce e sangue, a cura di Demetrio Paparoni, colpisce subito per il pathos che ricorda la carica espressiva del non finito dello scultore ellenistico Skopas.
«Pittore e scultore – dice Paparoni – che si affida a un’iconografia non estranea ai canoni della classicità, Samorì è tutt’altro che un artista tradizionalista. La sua è una delle testimonianze più pregnanti di come un artista possa amare la classicità e la tradizione e nello stesso tradire entrambe».
Realizzate su lastre di rame grandi 180×141, le opere di Samorì si ispirano alla Santa Maria Egiziaca di Jusepe de Ribera (1641) e al San Paolo eremita di Luca Giordano (1644).
Le due opere, intitolate Il Sangue dei Santi, sono state per l’occasione affiancate, in modo da entrare in dialogo e in perfetta armonia con i capolavori custoditi nel museo, in primis i quattro dipinti su rame di Luca Giordano collocati sui timpani degli armadi lignei della Sacrestia, da poco restaurati. Il dipingere su lastre di rame, su cui Samorì fa gocciolare degli acidi, gli permette di ottenere quel grado di ossidazione da cui prende poi vita la figura.
«Il colore del rame – racconta l’artista – rosato e rossastro ben si presta alla rappresentazione del corpo e, in particolare, del suo dentro. Non a caso il rame è utilissimo alla produzione dei globuli rossi, delle ossa e dei tessuti connettivi ed è anche il metallo che l’umanità usa da più tempo».
Sulle opere sono evidenti le parti in cui l’artista è intervenuto sulla superficie ancora non del tutto asciutta, ricreando quella vitalità propria del tessuto cutaneo, che sembra impadronirsi dell’iconografia classica e allo stesso tempo contemporanea, dei due protagonisti delle opere.
La gestualità, enfatizzata dai tocchi di luce caravaggesca sull’anatomia del corpo, allude al destino agiografico dei due eremiti che, come San Gennaro, sono stati metaforicamente privati della testa e quindi decollati scenicamente dall’artista. Il movimento che ogni anno simbolicamente sodalizza il legame tra il santo e il suo popolo è qui rappresentato dallo strascico del sangue color rame che emula quella della pelle umana in pittura, come la sua stessa sedimentazione.
«Per me – continua Samorì – ogni opera è una sintesi del vivere: è fatta di cura e di collera, di adorazione e di ripulsa. E fra la costruzione di una forma solida, senza crepe, e la disintegrazione della stessa, esiste un intervallo che mi attrae più di ogni altra cosa: è la forma esausta – a me piace chiamarla “sfinita” – che si arresta un passo prima della sua stessa sparizione, in una oscillazione fra la forma e l’informe, fra l’essere e il non essere, fra il narrare e il tacere».
Paparoni ha inoltre creato un ulteriore dialogo storico, tra San Gennaro e la Santa siracusana Lucia, entrambi vittime delle persecuzioni di Diocleziano. La Santa, più volte rappresentata da Samorì, è stata per quest’occasione realizzata guardando la posa del ritratto presente sulla pala di Deodato Guinaccia, sull’altare maggiore della chiesa di Santa Lucia alla Badia di Siracusa. Samorì, per realizzare la sua versione, ha utilizzato la tecnica del blend, per ottenere una sintesi delle caratteristiche di più opere, oltre il Guinaccia, sono state analizzate la Santa Lucia del Ribera, la Santa Cristina di Carlo Dolci, la Dama del Mazzolino del Verrocchio e la Lucrezia dello stesso Samorì. Il risultato è una nuova Lucia (2023, olio su pietra di Trani e geodi di calcite) dalla luce vibrante e con gli occhi bucati. «La ferita oculare – spiega l’artista – coincide con un vuoto naturale all’interno della pietra, una sorta di silenzio nella compattezza del minerale che i nostri occhi leggono come ferita».
L’esposizione presso la Cappella del tesoro di San Gennaro è stata presentata venerdì 15 dicembre, in occasione del rito dello scioglimento del sangue del 16 dicembre, alla presenza dell’artista e dal curatore, ha ricevuto le attenzioni di Mons. Vincenzo De Gregorio, Abate Prelato della Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, gli interventi dello storico dell’arte nonché neodirettore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Eike Schmidt, di Riccardo Imperiali di Francavilla, Deputato della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro, di Francesca Ummarino, Direttrice del Museo del Tesoro di San Gennaro e di Francesco Imperiali di Francavilla. La mostra sarà visitabile fino al 15 gennaio 2024.
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