Sarà visitabile fino al 7 gennaio 2025, al Museo Madre di Napoli, la mostra Cutting Clouds | Tagliando le nuvole a cura di Marta Ferrara e Marta Wróblewska. L’esposizione, disseminata negli spazi liminali del museo, attraverso l’espediente delle nuvole, ragiona sull’effimero e sulla transitorietà come prerogative dell’intero sviluppo della pratica artistica, dalla fase di creazione alla “messa in scena” pubblica.
Il titolo della mostra si rifà all’opera Cloud Scissors di George Brecht, prodotta all’inizio degli anni Sessanta, in cui l’artista fluxus, tramite la realizzazione di cartoncini indicanti luoghi, tempi e modalità, istruisce il fruitore a un possibile happening costituito da eventi effimeri e creativi. Dedicata a Robert Filliou, artista che ha lavorato sulla mescolanza dei generi, sul caso e sull’effimero, Cloud Scissors promuove una serie di condizioni da interpretare, come se fossero posture da assumere, affinché l’opera non sia solo l’oggetto finale del processo creativo, bensì, come meglio direbbe la poetessa russa Marina Cvetaeva in Indizi terresti, «L’arte non è fine a se stessa: è un ponte, non un fine».
Questa sfera di possibilità aperta dall’opera, dovuta alla condizione di non essere mai un ragionamento concluso, è una qualità affine alle caratteristiche naturali della nuvola: aggregazione nebulosa e transitoria, oggettuale e al tempo stesso evanescente. Attraverso il filtro atmosferico vanno dunque lette le opere esposte in Cutting Clouds, nella loro relazione con il museo, tra di esse e con il pubblico.
In effetti il primo spazio in cui “prende forma” la mostra è la biglietteria. Solitamente luogo di passaggio, diventa per quest’occasione ambiente paesaggistico. Attraverso tre opere, Tra cielo e terra (2013-2014) di Edoardo Aruta, Landscape 40.8342185,14.1992013 (2019) di Domenico Antonio Mancini e fino a dove il mio corpo riesce ad arrivare (2022) di Carmela De Falco, il visitatore è costretto a sostare in questo luogo inusuale con tempi diversi dalla norma. Nello specifico, richiede tempo osservare i francobolli di Aruta con annessa lettera al Ministero dello Sviluppo Economico in cui l’artista chiede di emettere ufficialmente i suoi fogli con oggetto le nuvole: «Per intendere l’Utopia come una dimensione reale». Occorre fermarsi per contemplare i quattro monitor contenenti il video di De Falco, per capire esattamente dove l’artista, tramite un gioco di luci e camere, spinge l’osservatore, tra le mura interne e gli spazi esterni di Napoli.
Anche l’opera di Mancini richiede una sosta. Cellulare alla mano, l’artista invoglia lo spettatore a cercare online le coordinate del luogo al centro della tela, ovvero uno scorcio da street view del Rione la Loggetta a Fuorigrotta, quartiere periferico di Napoli, protagonista, insieme ad altri paesaggi di periferie, della personale dell’artista nel 2019 presso la galleria Lia Rumma.
Prima di attraversare gli altri piani del Museo, alla base della rampa di scale, incontriamo l’opera “ “ ( 2003) di Perino & Vele, una betoniera in funzione che macina quotidiani e lambisce di stille in cartapesta i visitatori e il pavimento del museo. Di fronte, con un rimando involontario tra gli artisti, ma chiaro alle curatrici, l’opera di Yoko Ono CLOUD PIECE, una poesia della primavera del 1963 in cui l’artista chiede al pubblico di immaginare le nuvole che gocciolano per metterle in un buco scavato nel giardino. Nell’atrio dell’ascensore, anch’esso luogo liminare e inconsueto per una mostra, ci si trova avvolti dall’installazione sonora Corax (2023) di Alberto Tadiello. Il suono riproduce un assordante dialogo tra corvi che, grazie all’architettura dell’elevatore, arriva fino all’ultimo piano.
Lungo le scale, continua, si sviluppa Balugine (2024) di Matteo Nasini, un’opera site specific composta da fili di lana tesi, simile a un altro lavoro dell’artista, Color My Life With The Chaos Of Trouble, realizzato nel 2015 presso la Fonderia Artistica Battaglia. L’opera esposta al Madre consiste in un fascio di filamenti colorati che, torcendosi e sviluppandosi dal primo al terzo piano, si adattano alle linee sinuose delle scale e accompagnano il pubblico a raggiungere gli ambienti in cui “si addensa” la mostra: le zone non conformi alle leggi del museo.
Al primo piano troviamo, allestita nella Sala delle Colonne, l’installazione di Cesare Pietroiusti appartenente alla serie e molte alrew cose realizzata a partire dal 2019 e ancora in corso. Il progetto di Pietroiusti è frutto della co-autorialità dell’artista con 15 giovani artisti/e e curatori/trici di Bologna, ed è nato nel contesto della mostra retrospettiva Un certo numero di cose 1955-2019 al MAMbo. Per quell’occasione, l’artista ha previsto l’esposizione di un’oggetto per ogni anno della sua vita e, mediante un laboratorio permanente, questi sono stati riproposti, ripensati e riprodotti performativamente, fisicamente e narrativamente. Tutto ciò ha determinato la nascita di un’installazione che cresce col passare degli anni e dei luoghi. Le opere eseguite dal 2019 a oggi fanno parte della collezione del Madre e per tutta la durata di Cutting Clouds diverranno, attraverso laboratori e momenti collettivi, nuovamente spunto per nuove produzioni e storie, stavolta grazie alla collaborazione di artisti e curatori napoletani.
Al terzo piano, accolti dall’opera Batter d’occhio (2023) di Serena Vestrucci, la quale utilizza le proprie ciglia per dipingere la tela, e rapiti dal lungo video Supervision (Sphere) (2024) di Irene Fenara che monitora il movimento del sole, realizzato con una telecamera di sorveglianza, giungiamo alla sala in cui è presente il nucleo espositivo più corposo della mostra, composto da dieci artisti. Ivi, trasparente, si confonde nell’ambiente l’opera di Gianni Caravaggio, l’orizzonte si posa su una nuvola mentre il sole l’attraversa (2016), costituita da una matassa di nylon poggiata su un filo giallo (sole) e profilata da un filo blu (l’orizzonte). Accanto, ironizzando sulla trasparenza e sullo stato fisico della materia, ci sono le fotografie Scatole trasparenti. Ricerca sul paesaggio (1969-1974) di Salvatore Emblema che ritraggono dei blocchi in plastica simili a dei cubetti di ghiaccio inseriti in un prato.
Al centro della sala, in bacheca, D’age en age nuage (2002) di Arrigo Lora Totino, 246 little clouds (1968) di Dieter Roth, A hole to see the sky through (1971) e Grapefruit. A book of istructions and drawings (ed. 1997), entrambe di Yoko Ono: una raccolta di edizioni fluxus da cui è nata la ricerca curatoriale per la mostra sull’idea di nuvola. Punteggiano il centro della stanza anche Frase per questo piedistallo (2024) di Francesco Arena e la succitata Cloud Scissors di George Brecht. Sulle pareti sono presenti la composizione di post-it, dal titolo Omissioni (1998-2008), di Eva Marisaldi, la serie di delicatissimi disegni, Diariogrammi (2017-2019) di Marisa Albanese e il video Untitled (1993) di Simone Berti in cui l’artista gioca ad accarezzare le piccolissime particelle di polvere nell’aria distinguibili per mezzo di un fascio di luce in una stanza buia.
Le opere menzionate compongono il percorso museale di Cutting Clouds, tuttavia, la mostra si avvale anche di momenti “evanescenti”. È il caso della toccante performance di Gabriella Siciliano, Da casa mia non si vede il mare e Fragments of silence di Renato Fiorito, entrambe eseguite il giorno dell’inaugurazione. Per il 23 e 24 novembre, sono previste, rispettivamente, anche la performance Peeling Agency di Nuvola Ravera e Lezione sul selvatico di Cesare Pietroiusti.
Cutting Clouds, non ponendosi come una mostra fine a se stessa, assume lo statuto del ponte, dell’incontro temporaneo tra la città, il pubblico, gli artisti e i curatori, programmando, per i mesi che verranno, nuovi appuntamenti composti da talk e laboratori, come nel caso di sabato, 23 novembre, in cui si svolgerà un talk tra le curatrici e l’artista Kamilia Kard che presenterà il video Walking through, walking against (in proiezione in Sala Madre fino al 30 novembre).
Il museo, nei suoi interstizi, sfida la musealizzazione dell’arte attraverso suggestioni mai definitive sull’esistente. Le nuvole, ci dice Wislawa Szymborska, «Non gravate della memoria di nulla, si librano senza sforzo sui fatti […] Non devono insieme a noi morire, né devono essere viste per fluttuare». Le nuvole esistono a prescindere, proprio come il processo artistico che cresce con o senza il museo. Eppure, in qualche modo, nei loro ambienti liminari, le istituzioni museali non possono che cedere al fascino di ciò che si addensa sotto il cielo.
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