Sono opere che interrogano globalmente individui, élite, politica, i tappeti di Moffat Takadiwa, arazzi contemporanei creati con rifiuti di plastica che riprendono i pattern tradizionali dei tessuti dello Zimbabwe. Takadiwa, già affermato e presente in numerose mostre collettive in tutti i continenti, ha ora la sua prima personale negli Stati Uniti, a Los Angeles, presso la Nicodim Gallery. La mostra “Son of the Soil” rimarrà aperta fino al 19 ottobre nello spazio del gallerista rumeno Mihai Nicodim, che dal 2006 seleziona artisti emergenti per il pubblico californiano e americano.
L’artista, nato nel 1983, in un gioco concettuale tra denuncia e messaggio di speranza per il momento di passaggio in cui si trova l’Africa, capovolge potentemente gli esiti del degrado e dell’abbandono post-coloniale in una sintesi di sorprendente effetto, componendo, attraverso miriadi di piccoli pezzi scovati tra i rifiuti ad Harare, in una delle più grandi discariche del paese, opere che aprono un dialogo con temi quali l’identità culturale, l’indipendenza, la questione ambientale.
Tappi, coperchi, tubetti del dentifricio, spazzolini da denti, anelli e ogni parte di oggetti dalla vita più che effimera – nell’ottica del monouso – entrano a far parte di composizioni elaborate che richiamano la tradizione artigianale. Ogni pezzo, ogni infinitesimale rifiuto, recuperato da immense montagne nelle discariche, è portatore di una storia, di una responsabilità, spesso raccontata da un nome stampato, da un marchio, da una provenienza, che si oppone alla narrazione occidentale di un continente africano “miniera inesauribile di materie di valore”.
Sugli arazzi di Takadiwa in esposizione a Los Angeles, i rifiuti di plastica sono parte di una tessitura e di ricami in una imperlinatura dall’attraente effetto estetico per i cromatismi che da vicino si parcellizzano in un sentimento angoscioso, forte richiamo alla necessità di pensare all’ambiente, ovunque. Il tema del riuso e del recupero, presente nella produzione di numerosi artisti, in queste opere assume particolare valore proprio per la molteplicità di letture che offrono e per lo straordinario legame con le origini, in un percorso complesso che riesce a far emergere una profonda dimensione culturale.
Anche il titolo, che equivale a un’espressione carica di significati e anche connotata in aree linguistiche inglesi dal passato coloniale britannico, evoca l’appartenenza (dell’artista, dello spettatore, del produttore di oggetti, del consumatore?) di ciascuno a una terra, alla Terra.
La personale di Los Angeles contribuirà all’affermazione di questo artista che solo nel 2019 ha esposto in collettive Olanda, a Oslo, a Dubai e anche in Italia, al Museo Civico Archeologico di Bologna.
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