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L’istante vuoto, da una parte all’altra della pittura: intervista a Giuliana Storino
Arte contemporanea
Ha aperto il 10 aprile, al CRAC, incastonato tra le mura medievali di Castelnuovo Rangone, la mostra di Giuliana Storino a cura di Alessandro Mescoli, dove l’artista tarantina espone una tra le opere presentate in anteprima alla sua personale al Museo di S. Scolastica di Bari, realizzata con Giacinto di Pietrantonio nel 2021. Si tratta di Cavalletto a dondolo, che dà il titolo all’esposizione modenese: una riflessione sull’impraticabilità della pittura, o sull’antinomia della tecnica pittorica, ma non solo. La contraddizione in termini di cui l’opera si fa portatrice, data dal supporto principe della pittura montato dall’artista su assi ricurvi, risulta dall’interruzione del mutuo accordo di equilibrio e staticità che ha unito, in età moderna e talvolta nel contemporaneo, autore e opera.
Anche in questa occasione, Storino sonda le relazioni tra spazio, moto, segno, materiali e linguaggio, raccordando la progettualità sperimentale e l’eredità della tradizione storico artistica in una nuova installazione corale che vede l’opera moltiplicarsi in tre elementi formalmente identici, ma diversi per materiali ed “epidermide”, adagiati in silenziosa conversazione sul pavimento rivestito da coperte isotermiche oro.
Il titolo dell’opera suona come un calembour, rievocando il cavallo a dondolo. Ci sono riferimenti autobiografici, rimandi a una dimensione di gioco (non solo di parole)?
«Non si tratta, appunto, solo di un gioco basato sull’omofonia delle parole, bensì di una parte di quel gioco più grande, senza tempo, che sfugge alle definizioni, muovendosi su registri diversi, che è l’arte stessa. Ho trovato, nella semplice forma del dondolo, una complessità di elementi archetipica che sintetizza la metafora dell’esistenza. È particolare constatare come nel percorso della vita il nastro del tempo si riavvolge tornando all’infanzia. L’opera è un autoritratto e al contempo il ritratto dell’arte della vita nel contesto sociale in cui vivo; l’arte è un eterno bambino che gioca e ha come fine quello di non finire mai. È nell’evidenza stessa dell’oggetto la potenza della visione, generatrice di uno slittamento che ne rivela il senso».
Cos’è l’istante vuoto?
«L’istante vuoto è l’incanto del silenzio, quella dimensione sospesa, di attesa e di slancio, in cui si articola lo spazio della vita. Il segreto profondo di sentirsi parte dell’accadere, in cui la sensualità della vita e il suo sfinimento possono coincidere».
Cosa ti ha condotto, ora che la moltitudine di tecniche e materiali in passato definiti “extra-artistici” ha eguagliato la storica dignità della pittura, e l’impossibilità della mimesi è nozione acquisita, a soffermarti su questi punti?
«Sebbene le vicende concettuali della mímēsis ci presentino una carrellata di teorie alternative, esse sono riconducibili al paradigma classico dell’imitazione. All’interno di esso si teorizza e si pratica una mímēsis configurata come la relazione tra un “oggetto imitato” ed un “oggetto imitante”, dove il primo precede il secondo e ne significa l’operatività».
Cavalletto a dondolo porta l’attenzione «non all’opus finale», afferma il curatore — anche se, utilizzarlo porterebbe ad esiti altrettanto inediti e interessanti — «ma al tentativo di originare l’opera». Una riflessione, dunque, sul gesto che principia la creazione? Cosa motiva i materiali scelti e gli interventi segnici sulla superficie dei cavalletti?
«La pietra è il supporto originario, riconosciuto alla pittura rupestre o parietale, comune anche alle prime forme di scrittura. Questo ha determinato la scelta dell’ardesia per la realizzazione del primo cavalletto (2018). Disegno e scrittura entrano in rapporto dialettico nel secondo (2020), dove la grafite satura la superficie del legno, rendendolo quasi specchiante. L’idea è di sovvertire il modo tradizionale di concepire la grammatica del fare, fino a dissolvere la matita nella tridimensionalità dell’oggetto scultura. Nell’ultimo (2022) il tratto della penna si sedimenta in velature di blu attraverso il viaggio infinito del segno, come gesto della mano trasmesso al supporto dove il disegno incarnato all’oggetto diventa un tutt’uno con il corpo».
Allargando il campo di lettura dell’opera, Mescoli e Di Pietrantonio si riferiscono ai cavalletti come a dei testimoni dell’instabilità di questo secolo e della condizione oscillatoria dell’arte contemporanea. Puoi parlarci di questi aspetti?
«Il cavalletto è il testimone che resiste all’impermanenza del tempo. É un atto di resistenza mentale e fisica; un lavoro lento, estenuante come un cilicio, teso a trovare risposta alle problematiche del secolo. Il processo che evidenzio nel mio lavoro è quello di un’arte che pensa, e che non si limita a rappresentare qualcosa che la preesiste, ma a dar da pensare di nuovo. Lasciare nella deriva, uno spiraglio di rinascita e speranza».