“Oh, Dio non è che stiamo fermi”, così iniziava un saggio di Tommaso Trini che commentava l’Autospettacolo predisposto a Caorle, nel ’69, da Paolo Scheggi. E pur senza muovermi molto, che è così piacevole controllare il termometro restando nel proprio cantuccio, i miei primi viaggi nel mondo dell’arte e i primi rudimenti seri si sono verificati tra le pagine ricche di tavole dei Classici dell’Arte (Rizzoli editore). Incredibile strumento per il popolo tutto e particolarmente preziosi per quell’elenco cronologico e iconografico che pare ancora oggi uno strumento unico. E alla tavole ben stampate e di buona dimensione facevano da commento la “documentazione sull’uomo e l’artista” e la “bibliografia essenziale”. Ma la cosa che colpiva di più la mia attenzione era in assoluto l’introduzione scritta da incredibili penne ricche di spunti e analisi precise. Qualche esempio? “Non ci sbarazzeremo mai di lui, del suo peso, della sua assenza, come non ci sbarazzeremo mai della terra, della vita. Se ci resta da morire (tacere) ancora dentro il loro nome”. L’amato Alfonso Gatto chiudeva la sua introduzione a Cézanne proprio in questo modo.
“Conoscitore e grande artista al tempo stesso, dedicherà i suoi tardi anni alla custodia dei capolavori (nel Louvre) di cui in giovinezza aveva contribuito ad accrescere il numero” disse David alla Convenzione del 1793, parlando di Fragonard. E Daniel Wildenstein, grande mercante per tradizione e che curò la prefazione del volume nostro ad Honoré dedicato, non mancò di quotarlo, dopo aver notato, qualche riga prima, che “era dotato di un virtuosismo stupendo e che più di ogni altro aveva il senso dell’abbozzo e lavorava con una libertà e un ardore che si riscontravano soltanto in lui”. Corrado Cagli, deponendo per un attimo i pennelli, concluse invece il suo racconto su Tiziano Vecellio ricordando che “se da giovane aveva declinato l’invito del Bembo e si era rifiutato di collaborare con la Corte pontificia, a questo rifiuto risaliva la vena che sfociò più tardi nelle iconiche rivelazioni del Baccanale degli Andrii e del Bacco e Arianna. Così nell’età matura come nella sua alta età, la statura morale non gli consentì di subire le pressioni della corte di Spagna e tantomeno gli umori della Controriforma”. Quel Gert Schiff del noto Von Füssli zu Picasso ci ricorda che nella tematica di Füssli era “già racchiusa in buona parte la problematica esistenziale dell’uomo d’oggi” e come potremmo contraddirlo, guardando l’artista disperato di fronte alle rovine antiche che stanno alla Kunsthaus di Zurigo. Ennio Flaiano sentenziò per Paolo Uccello, parlando del San Giorgio, che “i colori hanno tenuto e splendono come nuovi. Che ogni minimo risultato chiedeva infinita pazienza e il genio era sottinteso” mentre Oreste Del Buono – critico, traduttore, giornalista, dimissionario frequente, e tanto altro – di Piero ricordò “l’irresistibile luce del presente che non potrà mai corrompersi né tramontare, i personaggi come il paesaggio familiare accettati e assorbiti, sdrammatizzati e celebrati nell’armonia, solenni nei lieti colori gemmanti tra i nodi delle implacabili conseguenze geometriche”. Renato Guttuso, scrittore per l’occasione, raccontando il Caravaggio constatò che “Roma non seppe prendere coscienza di quella morte, né di quella vita. Per secoli lasciò in ombra la straordinaria occasione che la sua opera offriva. E toccò da allora in poi, a rari uomini nuovi, a creatori solitari e convinti, riprendere in mano i fili di quell’occasione e perseguire l’idea della pittura come affermazione della verità delle cose, coscienza della vita e della morte”. Carlo Castellaneta scrisse che “il mistero che abitava i ritratti di Francesco Hayez resterà inviolato, anzi perduto per sempre, entro i labirinti del tempo”, mentre un altro Carlo – Bernari – scrittore, antifascista e partigiano, dei personaggi dipinti dal Tintoretto notò che “sembravano non posti a fare attori della vicenda ma da primi spettatori attoniti della rappresentazione di un evento sempre magico e strepitoso”.
Gian Alberto dell’Acqua, storico presidente del Museo Poldi Pezzoli e segretario della Biennale di Venezia, ricordò del Pisanello le sue “invenzioni figurali dei rovesci, dove più che mai si riaffermava, in clausole sublimate ed essenziali, quella sua sognante poesia lunare”. Marco Valsecchi rimarcò dell’ultimo Braque “la forza dell’invenzione pittorica”, mentre Renato Ghiotto scelse ovviamente il grande Bellini per dirci che “non è difficile capirlo, ma è difficile essere Giovanni Bellini ai suoi tempi e oggi: la misteriosa serenità delle sue opere è per noi motivo d’inquietudine”. Giorgio Zampa riscontrò invece una nota negativa per il maestro Dürer segnalando che a distanza di un secolo dalla sua scomparsa nella Norimberga “patria mai rinnegata, l’uomo di dolore doveva rimanere un’ombra “ e del suo lavoro non c’era più… traccia.
Michele Prisco citò il Berenson parlando dei cieli di Raffaello definiti “guaina dell’anima” mentre Carlo Bo scrisse che “Botticelli aveva capito che non sapremo mai tutto dell’uomo, e che proprio nell’ambito della sua raffigurazione va lasciata la traccia di questo regno dell’ignoto e dell’irraggiungibile”. Carlo Castellaneta ammise che “davanti alle tavole del Perugino noi restiamo, in punta di piedi, colpiti dalla grazia, rapiti in una spirale di flauti verso i lidi dell’ascesi” e Giovanni Arpino, giornalista e poeta che non c’entra con il Cavaliere, ci volle ricordare che “tutto ciò che di Rembrandt non ci raggiunge ci scavalca” poiché “il minuscolo bersaglio che siamo non ha strutture e fondo sufficienti per contenere e fermare tanto uragano di raggi”. E che il cielo ci fulmini, nonostante sia limpido.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
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