Dalla parte del drago #36: Storia dell’arte utile

di - 24 Settembre 2022

Nel 1923 Giovanni Gentile inserì la storia dell’arte nei licei classici consapevole che l’Italia era (e rimane) una meta obbligatoria per letterati, viaggiatori e uomini di cultura di ogni posto e nazione. Del resto era più che appropriato avere un’idea di quest’incredibile disciplina specialmente in questo paese così particolare che nasconde i suoi tesori anche nei luoghi più remoti. Ma perché la storia dell’arte sarebbe così importante? Milioni sono le risposte giuste: per tutelare il patrimonio, conoscere la storia, aver cultura e consapevolezza. Per scovare gusti, usi, costumi, tendenze, religioni, vita, morte e miracoli dei nostri predecessori. E ancora: per ampliar la visione, per sopravvivere alla fine o semplicemente per saper giudicare l’arte attuale che risponde alla corrente situazione. Ciascuno di noi avrà la risposta e penserà che sia quella corretta. Personalmente la ritengo la disciplina più divertente poiché consente d’investigare un dipinto come fosse un gioco, di contestualizzarlo e di capirne il motivo. Ma l’aspetto più intrigante dell’arte è che suscita domande e verso sera, mentre il riso cuoce, mi sono ritrovato più d’una volta a pensare: chi avrà dipinto il primo notturno a noi noto?

Taddeo Gaddi, L’Apparizione dell’angelo ai pastori, 1338, Affresco, Santa Croce, Firenze

Sta nell’Annuncio ai Pastori di Taddeo Gaddi, almeno credo, ovvero l’affresco sito nella cappella Barracelli del transetto destro di Santa Croce. Che è Giottesco d’impostazione – si veda la montagna spoglia fatta di ripida roccia – seppur eseguito con il suo stile personale, come confermano gli animali accovacciati nel basso del primo piano, gli alberi di modesta proporzione e il verde di sfondo che fa quasi da contorno. Contorno, appunto, perché del resto l’elemento naturale non era affatto il tema principale. E qui nasce una nuova questione: quando fu eseguito il primo paesaggio inteso come unico soggetto? È quello con fiume disegnato da Leonardo, conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze. Con l’acqua che scorre tra promontori e campi, alberi, castelli e cespugli sparsi. Ma non stiamo qui a far campagna, anzi… altra domanda: quando è comparsa la prima anguria? Che sia forse nella natura morta attribuita a Malacrea, che sta in bellavista a Trieste con fragola e melagrana? Niente affatto. Abraham Brueghel la anticipò di gran lunga in una “Natura morta con fiori e frutta” che nel 1660 già la contempla.

Angelo Martinetti, Natura morta, 1870, Olio su tela, 100×76 cm

E chi regge il cartiglio più strano della firma? Potrebbe essere, mi vien da scrivere, quello di Angelo Martinetti nel suo “Still life” del 1870, che fa sospendere nome e indirizzo dello studio ad un pollo stecchito appeso al legno. Poveretto! Era forse meglio non vederlo. Su quale naso sono comparsi per la prima volta un paio di occhiali? Su quello importante di Hugues de Saint-Cher, per mano di Tommaso da Modena, che dal 1352 pendono a Treviso in San Nicolò, nella Sala del Capitolo. E poi tutte le altre: quale sarebbe il primo quadro di battaglie? Esiste un dipinto milanese del Caravaggio? E il primo ritratto in assoluto? Ma anche le domande più profonde sono consentite: può un quadro con un soggetto sgradevole risultare piacevole? Direi di sì, perché la bellezza nasce dall’amore per l’esecuzione raffinata e si può ritrovare anche là dove compare un modello come Carlo II, con il tipico mento asburgico e i denti che non s’incontrano. E anche questo smacco diviene un utile spunto per uno storico bel ripasso: il disastroso pasticcio genetico causato dalla consanguineità dei suoi genitori e, prima di loro, di buona parte degli antenati.

Marcel Duchamp behind his installation of sixteen miles of string, The first papers of Surrealism, 1942, B/W print by Arnold Newman

E, avanzando fino al secolo scorso: cosa significa quello spago che Marcel Duchamp dispose nel 1942 di fronte alle opere degli altri colleghi per la prima esposizione surrealista oltre oceano al Philadelphia Art Museum? Era un ostacolo alla visione, si riferiva alle intricate interpretazioni dell’arte o aveva riferimenti con la seconda guerra mondiale? Rispondere con certezza oggi è impossibile. Ogni risposta, poi, dipende da quanto la si cerca. Perché una cosa che insegna l’arte – un’altra ancora! – è che bisogna studiare e saper aspettare, per capire bene. Ma forse è così per tutto e anche nel “Maestro e Margherita” c’è da aspettare il tredicesimo capitolo prima di veder comparire il Maestro del titolo. E noi, rimanendo in tema di scritti, così utili insiemi agli occhi, rimarremo sempre grati ai quei manuali di Lionello Venturi, Carlo Ludovico Ragghianti, Ugo Ojetti, Pietro Toesca e il trinomio Gentile – De Vecchi – Bottai. O a quelli aggiornati dal dopoguerra in poi, del Saitta e lo Spini, del Villari, del Camera – Fabietti, del Gaeta – Villani. Il Mary Pittaluga, il Carli – Dell’Acqua, il Castelfranchi Vegas – Cerchiari Necchi, il Giulio Carlo Argan, il Bairati – Finocchi o il Bertelli – Briganti – Giuliano… mio dio quanti sono. Fino ai manuali di ultima generazione, come l’Itinerario dell’arte di Cricco e Di Teodoro, e altri che nemmeno trovo.

Tomaso da Modena, Hugues de Saint-Cher, 1352, Affresco, Chiesa di San Nicolò, Treviso

Ma qui mi vien da sottolineare, per diretta esperienza personale, che ad avvicinare l’arte a tutte le persone ci pensò Ernst Gombrich, che ci diede con la sua storia “un piacere intenso per i sensi e per la mente” come scrisse nel 1950 H.W. Janson, noto professore Newyorkese. E fin dall’inizio del testo l’illuminato autore tende a specificare che tal fatica servirebbe ad “aprire gli occhi, piuttosto che sciogliere le lingue”, e che “vedere un quadro con sguardo vergine e avventurarsi in esso in un viaggio di scoperta è un’impresa ben più ardua ma anche ben più ricca di soddisfazioni. Nessuno può prevedere con che cosa, da un simil viaggio, farà ritorno a casa”.
E adesso, come concludiamo? “Giammai senza debiti e senza amore”, diceva un motto D’annunziano. Ma per noi e per Gabriele, che era incallito collezionista, anche “senz’arte”, si dovrebbe dire.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
IG: dallapartedel_drago

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