Galleria Macca, fin dal primo giorno di attività a Cagliari, è stata approcciata dagli artisti come un project space dove potessero confrontare la loro pratica all’interno dell’architettura dello spazio, prediligendo quindi progetti site-specific. L’obiettivo è quello di sviluppare connessioni, collaborazioni e nuovi progetti con artisti e curatori, dal Sud America alla Sardegna. Per saperne di più abbiamo intervista la fondatrice e titolare Claude Corongiu.
Ci tracci un tuo excursus di gallerista, anche in riferimento agli spazi espositivi che hai aperto o dove hai lavorato nel tempo?
«Prima di tornare a vivere a Cagliari e di fondare Galleria Macca nel luglio 2015, ho lavorato per più di 10 anni come curatrice indipendente e produttrice. Ho collaborato con un paio tra le più importanti gallerie d’arte contemporanea di Città del Messico e di São Paulo, e un artist-run space a Miami Beach, oltre a vari progetti artistici gestiti negli anni vissuti tra Londra e Parigi».
Come mai hai deciso di tornare in Sardegna, a Cagliari, e di trasferire qui la tua galleria?
«Ho deciso di rientrare in Sardegna, a Cagliari in particolare, la mia città natale, dopo quasi 20 anni vissuti all’estero. Una ragione è sicuramente quel “mal di Sardegna” che non passa mai, e che ci tiene legati alla nostra terra quasi fosse una nostra sorella gemella. Ma anche – e soprattutto – la necessità di dedicarmi solamente agli artisti che ho cominciato a seguire negli anni, il desiderio di poter lavorare liberamente insieme a loro, non per conto di altri, in un nostro spazio indipendente, libero da vincoli e pressioni “esterne”. La mancanza di gallerie d’arte contemporanea private nel territorio ha fatto il resto… oltre a una sana dose di “macchiori” (“pazzia” in sardo) [ed è da li che proviene il nome Galleria Macca, “macca” in sardo vuol dire “pazza”, n.d.a.]».
Quali sono le caratteristiche del tuo spazio espositivo e dove è ubicato?
«La Galleria Macca si trova all’interno di un bellissimo palazzo seicentesco nel centro storico di Cagliari, il Palazzo Amat di San Filippo nel quartiere “Castello”. È uno spazio abbastanza piccolo, due sale ricche di storia, con pavimenti in cementine a scacchiera… tuttavia è uno spazio molto versatile, che si presta bene a progetti site-specific, nonostante non sia il classico “white cube”».
Ci potresti descrivere la scena contemporanea della ricerca a Cagliari tra maestri ed emergenti? Quali sono a tuo avviso i più interessanti?
«La storia dell’arte contemporanea in Sardegna è stata caratterizzata sostanzialmente dall’influenza delle principali correnti artistiche nazionali che hanno prodotto artisti anche di grande qualità, ma troppo spesso attardati in ricerche ampiamente superate nei contesti internazionali. Dalla seconda metà del novecento tra Cagliari e Sassari la ricerca contemporanea ha subito una forte accelerazione, e i giovani di quel periodo, criticati per l’eccessiva sperimentazione dei linguaggi, sono oggi riconosciuti come i maestri più importanti: pensiamo a Rosanna Rossi, Tonino Casula, o agli outsiders come Costantino Nivola e Maria Lai, che hanno però vissuto gran parte della loro vita lontano dall’isola. I maestri delle generazioni di mezzo, come Antonello Ottonello o Lalla Lussu, ma anche Sciola, Zaza Calzia, Gianfranco Pintus e Gabriella Locci attendono ancora una storicizzazione, mentre a partire dalla fine degli anni novanta, i più giovani all’epoca, forse perché lontani dal peso delle scelte del mercato, hanno condotto ricerche spontanee e genuine, tra questi Pastorello, Giuliano Sale, Silvia Argiolas, Simone Dulcis, Alessandro Biggio, Narcisa Monni per citarne solo alcuni, molti dei quali sono oggi conosciuti ben oltre i confini della Sardegna. Tra i più giovani, fortunatamente sempre più in movimento, seguo con interesse la ricerca di Alberto Marci, Veronica Paretta e CRISA, ma non solo. E non vanno sottovalutati i fermenti urbani dei gruppi indipendenti dei writer, e la qualità degli illustratori sardi che portano il gene del talento nel loro DNA, molti dei quali risiedono sul territorio del capoluogo».
Cosa ti colpisce maggiormente, invece, della ricerca artistica contemporanea in America latina? Quali sono gli artisti che trovi più interessanti?
«La ricerca artistica contemporanea in America Latina si contraddistingue soprattutto nell’affrontare tematiche politicamente e socialmente complesse, che in Europa sono vissute – e gestite – in modo totalmente diverso. Ogni Paese ha una sua specificità, e ovviamente ho i miei artisti preferiti (oltre a quelli che rappresentiamo e con i quali collaboriamo), tra i quali Doris Salcedo e Cecilia Vicuña, ma anche Varda Caivano e Cinthia Marcelle, Mario García Torres e Teresa Margolhes, Carlos Garaicoa, compresa una giovanissima artista messicana, scoperta quest’anno a Città del Messico, Mariana Paniagua, classe 1994, che penso andrà molto lontano… ma di anno in anno la lista si arricchisce!».
Quali sono le principali differenze tra il mercato dell’arte latino-americano e quello italiano/europeo?
«Direi che la differenza principale fra i due è che il mercato latino americano è generalmente molto più dinamico, anche se influenzato dalla situazione politica spesso instabile. È molto più legato anche agli Stati Uniti, al cambio con il dollaro statunitense, rispetto all’Europa. E in questo momento storico, purtroppo, nessuno dei mercati gode di ottima salute».
A quali fiere partecipi e perché la loro scelta?
«Per il momento, l’unica fiera internazionale a cui siamo fedeli già da diversi anni è Material Art Fair a Città del Messico, avendoci vissuto nella capitale collaboro con diversi artisti messicani, e ho una nutrita schiera di collezionisti messicani che ci seguono da anni. [Abbiamo iniziato nella sezione dei Projects, con un site-specific di Rafa Munárriz nel 2018, e con un site-specific di Paulina Herrera Letelier nel 2019, e poi siamo passati alla sezione principale, con un solo di Marlon de Ajambuja nel 2020, e un solo di Diego Singh quest’anno.] Abbiamo partecipato a un paio di edizioni di Art.Untitled a Miami Beach, e l’anno scorso siamo entrati nella waiting list di ArtBasel Miami… Sembrerà strano, ma è un grandissimo traguardo per una piccola galleria basata nel bel mezzo del Mediterraneo, e ci fa pensare che siamo sulla buona strada».
A seguito della pandemia, pensi che ci sia spazio per una maggiore centralità del ruolo della galleria rispetto, per esempio, all’escalation delle fiere? Cioè a dire: ci sarà un riequilibrio tra la dimensione global e quella local della galleria?
«È molto difficile immaginare il nostro mondo dell’arte senza fiere, soprattutto per le gallerie più piccole e basate in zone periferiche. La pandemia ha sicuramente contribuito a ridimensionarne l’importanza, grazie anche allo sviluppo e alla “normalizzazione” del lavoro online, cosa che prima era soltanto prerogativa delle grosse case d’aste e delle gallerie blue chip. Tuttavia, nelle varie fasi di chiusure e riaperture durante la pandemia, abbiamo anche piacevolmente scoperto che i nostri collezionisti locali – e il nostro pubblico in generale – sentissero davvero la mancanza delle nostre mostre aperte al pubblico. Paradossalmente, dalla pandemia in poi abbiamo inviato molti meno PDF ai nostri collezionisti locali rispetto a prima, quando tutti davano per scontato che si potesse andare a vedere una mostra in qualsiasi momento. Non so se questo basterà a riequilibrare le due dimensioni global e local, ma certamente aiuta».
Quali sono le tue strategie digital invece? Le hai implementate? Utilizzi e-commerce o piattaforme dedicate (Artsy, ecc.)? Con quali risultati?
«Il nostro [piccolo] budget purtroppo è interamente dedicato alla programmazione, quindi non ci possiamo ancora permettere una vera e propria strategia digitale. Abbiamo implementato l’uso dei nostri canali social, in particolare Instagram (e vi invito a seguire la nostra pagina!), e ci appoggiamo ad Artsy nelle fiere in cui partecipiamo».
Qual è l’identikit del collezionista a cui ti rivolgi?
«I collezionisti che ci seguono da anni li definisco ormai supporter della galleria, perché ci hanno sostenuto sin dal primo giorno. Nel costruire il percorso dei nostri artisti, vogliamo anche connetterci con nuovi giovani collezionisti, e mantenere un dialogo costante con quelli più affezionati, che ormai fanno parte della famiglia “Macca”».
Quali sono a oggi gli artisti da te rappresentati?
«Praticamente quasi tutti gli artisti internazionali della nostra galleria hanno avuto la prima mostra europea da noi, e, soprattutto nei primi anni, c’è stato un forte legame nella programmazione tra l’Italia e l’America Latina. Durante la pandemia, per forza di cose, abbiamo dato più spazio a collaborazioni con artisti locali, e continueremo anche in futuro. Lavoriamo con diversi artisti internazionali tra cui Diego Singh, Janaina Mello Landini, Paulina Herrera Letelier, Omar Rodríguez-Graham, e fra gli italiani Veronica Paretta (finalista del premio della Video Insight Foundation 2022), Alberto Marci…; e fin dalla nostra apertura abbiamo collaborato – e collaboriamo – con tanti artisti, tra cui Giusy Pirrotta, Andrea Galvani, Cinthia Marcelle, Marlon de Azambuja, Ruben Montini, Nacho Martín Silva, Rafa Munárriz, Tomm El-Saieh, Cristian Chironi, Irene Balia, Crisa, Andrea Canepa, Eva Fábregas, Annalisa Cocco, e tantissimi altri…».
Qual è, a tuo avviso, lo stato di salute del sistema del contemporaneo in Italia, nel pubblico e nel privato? Quali ritieni che siano a oggi i suoi punti di forza e i suoi punti deboli?
«I galleristi ricoprono un ruolo fondamentale nella promozione e, quindi, nello sviluppo del contemporaneo nel nostro Paese, essendo il settore pubblico purtroppo ancora marginale. Partendo dalla considerazione che ci sarà sempre bisogno dell’arte (anche storicamente, non ne abbiamo mai potuto fare a meno), bisognerebbe creare un Sistema Italia più efficiente, contribuendo a costruire un mercato più solido e più attento alle esigenze delle diverse categorie. La sfida quotidiana è ormai quella di poter continuare a fare questo lavoro».
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