Dall’artista di quartiere alle Case Bottega: il caso di Barriera di Milano

di - 19 Marzo 2022

Cosa ti viene in mente quando pensi alla periferia torinese? Qual è il suo identikit?

«Quartieri nuovi, operai, poi la chiusura delle grandi fabbriche, ma direi come caratteristica l’eterogeneità: le periferie torinesi sono tante, diverse, con specifiche risorse e vocazioni. Un tratto comune è l’isolamento, la distanza culturale dal centro».

Nell’ottobre 2018 nasce il progetto ”Barriera in divenire” con l’apertura di Spazio Montanaro in una zona molto sensibile nella periferia di Torino, il quartiere Barriera di Milano. Di cosa si tratta e cosa ha significato per te?

«Barriera di Milano ha caratteristiche peculiari. È un vivace quartiere operaio colonizzato dai pugliesi dal primo Novecento. Oggi si presenta come un avamposto di immigrazione africana, incrocio di culture, ma anche di povertà economica e lavorativa. Sono diversi, infatti, i gruppi sociali e le comunità locali che faticano a relazionarsi tra loro. Barriera di Milano è diventato un complesso e interessante melting pot, tipico di città come Parigi, Londra, Berlino. C’è anche da dire che qui da molti anni risiede e opera sul territorio un artista del calibro di Alessandro Bulgini, caro amico e complice.

A Barriera di Milano ho affittato un piccolo spazio. Si tratta in effetti di una delle prime sedi del PCI in città, poi diventato Arci e PD, quindi abbandonato. Aprire le serrande di Spazio Montanaro ha significato per me una precisa e necessaria scelta artistica, estetica e filosofica: inserirsi in un tessuto difficile, ma assai vivo e vitale, per restituire lo spazio di un ex negozio e le sue vetrine al movimento della strada, del passaggio della via e del mercato. Queste sono le parole chiave di Spazio Montanaro: presenza, relazione, strada, apertura, dialogo, condivisione, suono, colore, azione delicata, ascolto».

Cristina Pistoletto, performance della pulizia

Cosa vuol dire pensare l’arte come strumento di connessione?

«Significa crederci, prima di tutto. Credere che l’arte sia un linguaggio vivo e che dunque sia necessario per comunicare; mentre nel sistema mainstream l’arte sembra diventata una lingua morta. L’arte corrisponde a un’intima necessità dell’essere umano, e si somma a quella di alimentarsi con il cibo e di riprodursi attraverso la sessualità. Questi sono bisogni vitali che condividiamo con gli animali, mentre la creatività, come la spiritualità, sono attitudini prettamente umane. L’arte è da tempo perfettamente inserita nel sistema capitalistico, dunque si presenta collegata all’economia fino a diventarne una vetrina essenzialmente per un’élite colta e ricca. L’arte, tuttavia, in quanto strumento di relazione si offre alle circostanze più complesse e diversificate. Da vent’anni si stanno accumulando in questa direzione evidenze scientifiche e cliniche sulla rilevanza del contesto e della partecipazione culturale per il ben-essere delle persone e convergono con le prospettive indicate dalle nuove frontiere della ricerca. Si parla dunque di arte relazionale, partecipativa, agita sul territorio e a disposizione di tutti. Pensare l’arte come importante strumento connettivo portatore di luci vuol dire coltivarla là dove la luce manca e dove i diversi gruppi sociali e le comunità faticano a relazionarsi tra loro. Tanto più in un periodo e in luoghi in cui le difficoltà economiche si sono acuite come mai».

Quali artisti hanno partecipato al tuo programma sul territorio di Barriera di Milano, per laboratori e attività relazionali e partecipative?

«Eddy Ekete Mombesa, artista franco congolese, con Les homme Canette. La coreografa e danzatrice Marigia Maggipinto. Carlo Infante, docente free-lance ed esperto di media e comunicazione, con Walkabout-proiezioni nomadi. Yuval Avital, artista multimediale, musicista e compositore, con il progetto Rivers co-prodotto dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino, con la partecipazione di rifugiati e richiedenti asilo. Sergio Racanati, artista, con Studio per una Wunderkammer in Spazio Montanaro. E ancora, Julien Cachki, artista, con performance in strada. Il Collettivo Progetto Rescue, un gruppo di ricerca teatrale di pratica partecipativa. Alessandro Rivoir, artista residente in Barriera di Milano, con Animali di Barriera, un intervento di arte urbana per segnalare le Case Bottega. Patrizia Fratus, artista, con il progetto itinerante VirginiaPerTutte. Gianni Oliva, fotografo, ha ricreato in Spazio Montanaro l’antica idea del fotografo in negozio. Serrande in Barriera, un progetto di street art in collaborazione con l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Il Collettivo Codicefionda con Giococittà, un percorso di narrazione multimediale sul quartiere e sui suoi abitanti con il coinvolgimento dei bambini della scuola pubblica Gabelli. Infine, Nick Difino, artista, food hacker e food performer, che ha proposto in piazza il racconto teatrale Zuppa di pietre, una fiaba antica sulla condivisione».

Nicola Difino, Zuppa di Pietre, via Montanaro

Come ha visto la luce il progetto di Case Bottega e perché?

«Quando parlai a Marco Giusta, ex assessore della città di Torino alle periferie e alla creatività, del mio programma di arte partecipativa a seguito dell’apertura di Spazio Montanaro, lui ebbe la buona idea di associarlo a un lavoro già avviato dal Comune sul tema dell’insediamento di giovani creativi in aree socialmente e commercialmente deprivate, caratterizzate da problemi di sicurezza urbana. Il gruppo di lavoro è stato costituito in partnership tra le associazioni Community Hub via Baltea 3, Casa di Quartiere Bagni Pubblici di via Agliè e Spazio Montanaro, con il sostegno del Comune di Torino, della Circoscrizione 6 e della Fondazione Compagnia di San Paolo attraverso il bando Civica ».

Come si inserisce tutto ciò nel progetto “Barriera in divenire”?

«Il mio compito è stato quello di svolgere una sorta di riscaldamento del territorio, di prepararlo, di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica cittadina e presenze dall’esterno e, non ultimo, di accompagnare i giovani artisti delle Case Bottega in direzione di una visione civica dell’arte».

Cosa significa per te l’ARTISTA CIVICO, l’artista di quartiere?

«L’artista Alessandro Bulgini già si propone come “artista di quartiere”. Io con la definizione di “artista civico” intendo chi, rivolto alla pluralità oltre al proprio ego professionale, avverte la forza innovativa dell’arte e la mette a disposizione della comunità vasta ed eterogenea di un quartiere, di un paese, di una città. L’artista di quartiere è implicitamente curioso dell’altro, della sua natura, identità, cultura; egli si relaziona con le persone, con l’ambiente e il territorio con cura e attenzione. Non si rapporta a contesti o gruppi omogenei, ma con i cittadini nelle loro diverse identità e culture, preoccupandosi dello spazio vitale che lo circonda e non solo del proprio spazio privato. L’artista di quartiere segnala anomalie,  suscita attenzione, è sensibile e sensibilizza, produce arte con i mezzi che il territorio offre e ne connette gli attori che possono produrre rigenerazione, così da infittire un tessuto sano dove le maggiori fragilità del territorio minano il senso di fiducia e sicurezza degli abitanti».

Quali sono i gruppi di giovani artisti di casa Bottega che si sono impegnati con voi in questa scommessa di vita di arte e rigenerazione?

«Le case Bottega sono attualmente 7 comprendendo 39 artisti: Enchiridion, Erboristeria Atlas, La scimmia in tasca, Casa Tonale, Stasis Lab, Ventunesimo, Vernice Fresca in Barriera. Gli artisti svolgono ricerca dal teatro alla pittura, dal video making agli ambiti poetico/letterari, dalla musica elettronica a quella contemporanea, creativa e jazz, dalla ricerca curatoriale a quella performativa».

Wunderkammer, Sergio Racanati, Spazio Montanaro durante il lockdown

Quali sono stati i risultati a oggi?

«I risultati sono stati superiori alle aspettative. Le botteghe sono aperte e attive, coinvolte nel quartiere in progetti aperti e innovativi e in attività importanti promosse, per esempio, dalla Galleria d’Arte Moderna. Le numerose presenze di artisti invitati, attraverso azioni, performance, laboratori e installazioni hanno reso partecipe il territorio, in modo diretto e indiretto. L’attrattività è aumentata, anche per il delinearsi di una vocazione artistico culturale che incrementa l’interesse della zona per artisti e professionisti che la scelgono per i propri laboratori e per le loro stesse abitazioni. Si percepisce il carattere peculiare e “internazionale” di del quartiere di Barriera di Milano che finisce per essere il meno provinciale di una città abbastanza chiusa come Torino».

Tutto questo è sostenibile economicamente? 

«Lo è faticosamente, non si pratica arte per essere venduta. Le Case Bottega sono state provate dalle difficoltà della pandemia, ma cercano in ogni modo di raggiungere una sostenibilità e affinare progetti e programmi. Noi tre associazioni partner coinvolte (Community Hub via Baltea 3, Casa di Quartiere Bagni Pubblici di via Agliè e Spazio Montanaro) intendiamo proseguire a tessere una rete tra associazioni, artisti, realtà e attività che nell’unione trovino possibilità e forza propulsiva. Confidiamo anche nella nuova amministrazione cittadina, che sembra intenzionata a dare alle periferie un nuovo assetto valorizzandone anche le molteplici attività sociali. Spero che i nostri politici colgano la forza della visione innovativa dell’arte che si sta sprigionando specificatamente in Barriera e che la sostengano restituendo Torino alla sua storica vocazione artistica, una volta parallela a quella industriale».

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