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Damir Ocko, Dear Tiziana – Galleria Tiziana Di Caro
Arte contemporanea
Nella nuova personale di Damir Očko (Zagabria, 1977), l’artista e la Galleria Tiziana Di Caro di Napoli rendono manifesto un importante elemento: il rapporto amicale che si è instaurato tra Damir e Tiziana. “Dear Tiziana”, infatti, è sì il titolo della mostra, ma pure l’incipit del comunicato stampa che, a sua volta, è la pedissequa trascrizione di una delle numerose mail scambiate nel tempo tra i due, anche, ovviamente, per comporre questa esposizione (visitabile fino al 28 maggio).
Fedele alla sua pratica artistica (che spazia dai video alla fotografia, alle installazioni, ai libri d’artista, alla scrittura), pure in questi ultimi lavori, Očko ha utilizzato una tecnica a lui molto cara: il collage, investito di un ulteriore significato simbolico. Perché, oltre a costruire pazientemente delle raffigurazioni, egli rinsalda delle fratture, osserva e analizza quello che è dentro il suo animo e intorno a lui, ricostruisce qualcosa di personale ma, al tempo stesso, di profondamente comune. Come il suo studio, a causa di un terremoto, è andato in frantumi, così le comunità si sono spezzate a causa della pandemia. Come con i collage ha rimesso insieme quei frammenti sparsi, pregni di ricordi e di senso della vita, così, attraverso di essi, ha composto e ricomposto valori e contenuti nuovi e rinnovati (quella frammentarietà che, con senno del poi, sembrava annunciata dal video The Third Degree, presentato nel padiglione croato durante la 56.biennale, in cui corpi nudi e scene riflesse di backstage si intervallano, e il corpo si fa racconto delle violenze dei processi di produzione sociale).
Un ambiente, quello plasmato negli spazi della galleria, intimo, finanche gioioso, che mal cela guizzi di nostalgia. Un’atmosfera avvolgente, profondamente intessuta di fisici frammenti intrecciati a private memorie biografiche. Sin dalla prima opera magnificamente esposta nel primo ambiente della galleria. Come un diamante, un bene prezioso, il primo collage -o, come ribattezzati dall’artista stesso, DragForms-, solitario, al centro della parete di fondo, per l’occasione imbellettata con della “cipria” (si passi la libera similitudine), i cui granelli residui si sono depositati sull’alto battiscopa e sul pavimento. Una bambina (?), dai lunghi capelli attraversati dal vento, china nell’atto di allacciarsi uno scarponcino rosso, lo sguardo verso l’infinito. Su una gouache su carta, Damir Očko ha steso coriandoli, glitter, tessuto, lamine di metallo, foglie di carta e, anziché apporre la sua firma, in una sorta di cartiglio, di umanistica memoria, ha posto il titolo dell’opera su uno dei fluttuanti ritagli: Boot Plash Alibi. Annunciando tutti gli elementi chiave dell’insieme dei lavori esposti. A partire dal titolo.
Oltre ai collage, Damir Očko ci ha abituato al suo amusement di anagrammare parole, titoli, nomi (non dimentichiamo che Dick Maroo è, infatti, il nome del suo alter ego drag). Boot Plash Alibi altro non è che l’anagramma di ballistofobia, ovvero la fobia, la paura dei missili o dei proiettili, la paura, cioè, di essere colpiti.
Ecco un’altra traccia: la fobia. Come in un rinnovato bestiarium, di radice medievale, egli costruisce nuovi simboli, attraverso inedite iconologie e metafore (rinunciando alle cervellotiche installazioni di Vettor Pisani). Questa paura è quella che l’artista stesso ha provato nel 1991, durante la guerra di indipendenza della Croazia. Nell’iniziale DragForm, egli racconta un proprio ricordo. Quella bambina, in realtà, è l’artista stesso che, all’età di 13 anni, durante una bella giornata autunnale, per la prima volta nella sua vita, sente il suono della sirena antiaerea. Avrebbe dovuto correre al riparo ma, invano, tentava di allacciarsi quelle scarpe che, giorni addietro, aveva comprato nuove, con i soldi regalati dalla nonna; scelte per la prima volta in modo completamente autonomo, che gli costò severi rimproveri da parte della madre, perché solo “dei finocchi indossano cose del genere”; per questo le avrebbe dovute restituire (e perciò da allora cerca di comprare le scarpe più stravaganti che può). Talmente tanta la paura, che non riusciva neanche a compiere uno tra i più semplici gesti quale quello dell’allacciarsi le scarpe. Quella festa, con la quale avrebbe voluto celebrare l’apertura della nuova personale della galleria, con paillettes e performance drag, e dell’amore, della speranza e della “famiglia scelta”, a causa della pandemia, è stata giocoforza annullata, nonostante il suo animo resti quello di una drag queen ammaliato dai glitter.
Così, nella fantasia, quella festa si è svolta, e nella galleria sono disseminati i rimasugli dei festeggiamenti: bottiglie vuote, bicchieri da cocktail e da sfrenati brindisi. Ma siccome niente è casuale, sulle bottiglie vuote ci sono delle frasi, che continuano il dialogo tra Damir e Tiziana, che raccontano di delusioni (anche del mondo dell’arte). I bicchieri diventano delle sculture da tenere in mano, nelle quali si stratificano i resti della festa: collane di perle, mozziconi di sigarette, “simboli della sorellanza”. Il tutto “osservato” dagli animali dei Dragforms (dal pappagallino di Abseil Oomph Lips=Psellismophobia; dalla scimmia di Euphoric Baton=Counterphobia; dalla volpe e dalla clitoria di Oho I Probate=Erotophobia; dall’utile sterna bianca di His Boat so Alpha=Talassofobia; dal corvo di Podia Box Ho=Doxophobia; dal barbagianni di A Pair Hope Bio=Apeirophobia) che raccontano del vasto catalogo delle fobie umane, e “protetto” da una “tenda” sulla finestra intessuta dai brandelli strettamente legati alla vita dell’artista, da polvere e glitter, opacità e luccichii, distruzione e speranza, disperazione e gioia. Con la speranza di superare quell’Anablefobia di Heal a Pain Bob, iniziando col godere della vastità del cielo, raccogliendo quei frutti caduti sì dal cielo, ma ora ai nostri piedi.