Correva l’anno 1990, è il 4 febbraio. Daniela Comani (Bologna, 1965) studentessa all’Università delle Arti di Berlino nel giorno del suo compleanno realizza una ripresa video con una camera-car di un incrocio stradale, attraversando in auto i distretti Mitte e Prenzlauer Berg nel settore orientale della città dopo la caduta del muro. Conserva il video in VHS, in formato analogico su supporto di nastro magnetico. Vive nella capitale già dal fatidico 1989, dove avrebbe avviato e consolidato il suo lavoro di artista intorno ai concetti di storia e identità, affrontando stereotipi sociali del tempo, facendosi misura e interprete col suo sguardo e il suo corpo di cambiamenti epocali.
Stacco. È il 2020. Comani è rimasta a vivere a Berlino, il mondo è lì da spezzarsi di nuovo, questa volta per il Covid, e l’artista torna a filmare lo stesso scorcio di quella che era la Ostberlin, dopo 30 anni. Alle spalle ha premi e riconoscimenti tra cui una partecipazione alle Biennale di Venezia. Con la città, si è anche evoluta la tecnologia: realizza ancora una volta un ripresa da un’auto in movimento ma con un iPhone, in formato digitale, ripercorrendo lo stesso tragitto nello spazio urbano nel frattempo mutato. Dal rapporto tra quei due filmati, che appaiono come due parantesi entro cui si è svolta la sua carriera e i profondi cambiamenti del mondo, nasce un’opera video split-screen in sincrono, molto poetica, intitolata East Berlin 1990-2020.
Negli anni i supporti di registrazione e conservazione si sono decisamente trasformati in oggetti-cose via via sempre più piccoli, leggeri, maneggevoli, intangibili al limite dell’evanescenza come per il sistema Cloud, persi i quali perderemmo la memoria. Comani con approccio tassonomico, allo stesso tempo compiendo un esercizio intimo, decide di riunirli tutti, tutti quelli utilizzati per la sua ricerca, dalle macchine fotografiche ai telefoni, passando per i floppy disk e CD-ROM, poi sim e memory card, immortalandoli in rigorosi still life a comporre una galleria di immagini d’archivio i cui soggetti sono gli oggetti stessi utilizzati per archiviare proprio immagini e memoria personale. L’uno in fila all’altro, 44 ritratti della storia dei media. La sua storia dei media. La sua storia. Un diario allo stesso tempo personale e globale, di cose apparentemente anonime ma che le sono appartenute e che appartengono a tutti nel corso degli eventi. In nessun altro periodo prima la tecnologica ha presentato un così rapido susseguirsi di soluzioni e disfacimenti.
Questo lavoro prende il nome di Supporto memoria / Memory Device (2023) che dà titolo alla mostra in corso fino al 31 marzo 2024 nella Galleria Studio G7 di Bologna e che include, oltre il video del 1990-2020, un autoritratto in formato Polaroid del 1992, scattato con la tecnica della doppia esposizione, in cui per citazione compare Berlino. Comani si inquadra in un piano americano con alle spalle una riproduzione fotografica effettuata da lei del modello della “Grande sala del Popolo” nazista, voluta da Adolf Hitler e progettata da Albert Speer. Si tratta di una opera nell’opera, che chiamerà Senza titolo (messa in scena di se stessi), esposta in questa occasione bolognese per la prima volta. Dal 1996 infatti avviava una sodale collaborazione con la galleria di Ginevra Grigolo, oggi diretta come è noto da Giulia Biafore, con la quale realizza nello spazio la sesta personale, accompagnata da un testo di Giangavino Pazzola.
Daniela, c’è un periodo a Berlino a cui sei legata maggiormente? E uno degli apparecchi rappresentati a cui hai tenuto o tieni di più?
D.C. «La serie Supporto memoria inizia con una fotocamera Polaroid degli anni Settanta che ricevetti in regalo da bambina: non solo mi piace come design, come oggetto, ma il ricordo è molto forte, aveva qualcosa di magico. Così come la fotocamera Minox che ho acquistato a Berlino all’inizio dei Novanta e utilizzato in giro per la città e nell’Europa dell’est, fino in Russia, da Mosca a Vladivostok».
Dai rullini, musicassette e schede da inserire agli hard disk esterni, ti è mai capitato di perdere uno tra i supporti e quindi i ricordi contenuti? Come hai reagito o reagiresti se accadesse?
D.C. «In realtà anche se l’oggetto non è stato perso ed esiste ancora non è detto che funzioni: anni fa in un processo di digitalizzazione delle vecchie cassette VHS, U-Matic, Hi8 ecc. tra tutto il materiale ho trovato un paio di cassette con gravi danni che non erano più visibili, o recuperabili solo in parte. Certo si può provare di trovare soluzioni alternative per recuperare i dati perduti con servizi specializzati, oppure concentrarsi sui ricordi rimasti. Nel convoluto di immagini che ci sobbarchiamo col passare del tempo, se ce ne sono alcune perse fa parte del gioco».
Con i due lavori del doppio video e dell’autoritratto sdoppiato affronti esplicitamente il tema “del doppio”, appunto, e l’effetto perturbante che genera. Si manifestano valenze magiche e stranianti che convivono con aspetti che anche al pubblico possono apparire familiari e rassicuranti. Come nel caso della serie di scatti ai devices, che tutti conosciamo e abbiamo usato. Vogliamo affermare che il supporto che ci immortala è già il nostro doppio?
D.C. «Per quanto possa essere accattivante questa interpretazione, i supporti non possono catturare interamente la complessità di chi siamo come individui; li vedo piuttosto come una forma di prolungamento o testimonianza delle nostre esperienze e delle nostre memori».
Giangavino, lungo la storia dell’arte e della fotografia sono numerosissime le rappresentazioni con dinamiche di tipo speculare, dove a volte siamo semplici spettatori di fenomeni di doppio, altre invece l’incontro con il doppio riguarda noi stessi come soggetti, la nostra identità, la perdita d’identità. Attraverso Daniela Comani, in questo progetto di mostra, la riflessione si allarga a un’intera civiltà, che si specchia nel suo tempo, riconoscendosi per appartenenze o errori, come si colloca la sua ricerca?
G.P. «La questione del doppio è presente in moltissime esperienze artistiche, tante delle quali ci hanno raccontato di come il media sia stato utile non solo per compiere delle indagini di natura introspettiva, ma anche per delle operazioni più specifiche di investigazione del linguaggio. È il caso di Ugo Mulas che, ne Le Verifiche o negli autoritratti, comprendeva anche l’apparecchio. Paul Valery poi ha parlato tantissimo, rileggendo l’opera di Rimbaud, di come l’arte funzionasse nell’immagine speculare, proprio per l’analisi del doppio e Pistoletto, per esempio, ha trattato spesso l’immagine del doppio all’interno dello specchio, in maniera da lasciar compiere un processo di identificazione collettiva dello spettatore nell’opera.
Daniela Comani fa un lavoro assolutamente personale da questo punto di vista, partendo dalla sua esperienza con la propria ricerca indaga l’esistenza, che in virtù della potenza dell’opera diventa universale. Lo fa attingendo a dei codici di riferimento della fotografia concettuale, soprattutto di aria americana e anglosassone, per poi calare il lavoro nel contesto italiano, anche nel riferimento a uno dei temi principali che è quello dell’indagine del paesaggio urbano».
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