Un suono irregolare e composito accompagna l’ingresso nel Padiglione Giappone della 60° Biennale di Venezia; illuminato a giorno e slanciato verso l’alto, Compose si espande a macchia d’olio in tutti gli angoli a disposizione. L’installazione cinetica di Yuko Mohri reclama uno sguardo mobile: occhi capaci di spostarsi dagli oggetti che, come vegetazione pensile, scendono dall’alto del soffitto – componendo l’ultima opera del ciclo Moré Moré (Leaky), iniziato nel 2015 – tra cui ombrelli, imbuti, bottiglie, padelle e secchielli, fino ai vecchi speaker Bozak poggiati al suolo e collegati agli innesti che si piantano in frutta marcescente, come nella più recente Decomposition. Al centro della sala un cavo prosegue attraverso l’apertura quadrata nel pavimento del Padiglione, progettato da Takamasa Yoshizaka, collegato all’esterno ad alcune lampadine la cui luce intermittente anticipa le flebili energie liberate nell’ambiente, ancora prima di entrarci.
Ricostruire la genealogia dell’ultima installazione nella serie Moré Moré (Leaky) implica ritornare al 2009, l’anno delle prime fotografie esposte in Moré Moré Tokyo (Leaky Tokyo): Fieldwork. Scattate nei corridoi sotterranei della metro di Tokyo, documentavano gli assemblaggi di tubi e nylon improvvisati per contenere le perdite d’acqua che i frequenti terremoti e le attività edili in superficie provocavano nelle stazioni della capitale giapponese. Negli anni a venire Yuko Mohri avrebbe iniziato a comporre i propri sistemi di perdite controllate, utilizzando oggetti trovati nei luoghi delle sue mostre. L’uso dell’oggetto comune, la cui funzione viene annichilita, richiama inevitabilmente il ready-made duchampiano, nonostante la casualità che fa incontrare l’artista con la sua materia prima non persista nell’attenta – e non priva di gusto – coreografia che successivamente vi compone. Solo gli spasmi e le delicate contrazioni che l’acqua provoca attraversando le macchine di Mohri le rende, entro certi limiti, strumenti sonori imprevedibili. Questo non dovrebbe stupirci: anche nel Grande Vetro di Duchamp era un liquido, incarnazione del desiderio, ad alimentare l’articolato meccanismo rappresentato, a partire dalla cascata d’acqua che aziona il mulino nella metà inferiore. L’artista giapponese, che cita esplicitamente il Grande Vetro – visivamente e nel titolo – con Moré Moré (Leaky): The Falling Water Given, nelle sue installazioni è svincolata dai limiti di un telaio, dipanando nello spazio i suoi sistemi lineari – memori dei processi sperimentali messi in atto dal duo Fischli & Weiss in The way things go – e ciclici.
Le composizioni con la frutta, invece, hanno un’origine più recente. Yuko Mohri inizia a testare la materia organica durante il periodo della pandemia di Covid, esponendo i primi risultati nel 2021. I suoni emessi dalle casse collegate alle svariate mele, banane, pere, ananas, mandarini e arance – prodotti reperiti localmente fra quelli ormai invendibili – derivano dall’elaborazione di un valore misurato tramite gli elettrodi conficcati al loro interno, i quali sono suscettibili alle variazioni della resistenza elettrica conseguenti l’alterazione dell’umidità nel corso della decomposizione. Sarebbe erroneo, dunque, parlare di natura morta riferendosi a Decomposition, mancando di identificare l’agente improvvisante – al pari di ciò che per John Cage, nei suoi concerti silenziosi, erano i suoni ambientali e le reazioni del pubblico – nei frutti contemporaneamente vivi e non, da cui sono raccolti i segnali convertiti in elettricità, attrice invisibile presente in tutti i lavori di Mohri.
Yuko Mohri, conversando con Vicente Todolì sulle ragioni che l’hanno spinta a proporre due nuove iterazioni delle succitate serie, nella pubblicazione che accompagna la mostra – edita da Mousse Publishing – descrive i piccoli inconvenienti che Tokyo, seppur costruita a prova di terremoto, deve affrontare frequentemente. Approdata a Venezia per la Biennale l’artista riflette sugli stessi temi, in virtù del legame inseparabile tra l’isola e l’acqua – con le sue implicazioni sul contesto urbano – e le conseguenze della crisi climatica che si abbattono per prime in un luogo così fragile. Mohri propone a Venezia il compostaggio, destino che spetterà anche alla frutta usata nell’installazione, come pratica per ridurre gli sprechi che su un’isola possono avere conseguenze sensibili, introducendoci ad una poetica fatta di piccoli gesti capaci di avere un impatto significativo.
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