Vivere, abitare il mondo, esperire la realtà sono azioni (e condizioni) che comportano un attraversamento, un’attitudine al disvelamento continuo di ciò che ci circonda ma anche di messa in discussione di ciò che crediamo di conoscere. Nella quotidiana esperienza siamo indotti a misurarci costantemente con l’ignoto, con il diverso, con l’altro da sé. In questo continuo e ineluttabile confronto i processi di scoperta e di conoscenza subiscono continue deviazioni. La realtà si rivela essere un percorso tutt’altro che lineare e uniforme, pieno di sinuosità, ambiguità, doppi sensi, asperità, finanche regressioni. Ciò che crediamo essere vero può non esserlo e viceversa.
Se ne deduce che l’unico metro di misurazione possibile è il dubbio. La certezza è lapidaria, unica e proprio per questo ingannevole, il dubbio, invece, nel suo non essere, pone domande e induce a progressivi atti di verifica. Da questo assunto (e da altri, tutti parimenti possibili nell’esperienza di conoscenza del mondo) parte la mostra “Deflection”, in corso fino al 24 giugno nell’ex chiesa di San Francesco della Scarpa, a cura di Giacomo Zaza in collaborazione con la Galleria Tiziana Di Caro di Napoli.
Un luogo di per sè “deviato” nella sua funzione, con un passato da chiesa, un presente da sede espositiva ed un futuro ancora da scrivere, a cominciare dalla proprietà (è tra i pochi beni ancora direttamente gestiti dalla Provincia). Uno spazio nato per offrire una visione unica del mondo mediante l’atto di fede e che oggi invece, attraverso l’arte, offre inedite e molteplici possibilità di visione ed interpretazione. A questa possibilità dell’arte, unica e irreplicabile, si affida la mostra in corso.
Cinque artisti, differenti per provenienza, esperienze di vita e mezzi espressivi, si confrontano in un percorso che apre svariate problematiche, installando nello spettatore il benefico germe del dubbio, inducendolo ad interrogarsi sulla realtà che viviamo, che crediamo di conoscere ma della quale è possibile non solo una ma infinite interpretazioni. Punti di vista plurimi attraverso cui tentare di sciogliere nodi complessi o anche solo acquisire conoscenze aggiuntive che consentiranno di scioglierli.
Shadi Harouni (Hamedan, 1985) apre prospettive divergenti sulla storia del suo paese, l’Iran, e lo fa trattando il dramma dei curdi, perseguitati a casa propria, privati dell’identità sociale e linguistica, ignorati dalla politica internazionale. Particolarmente indovinata appare la scelta di collocare sull’altare principale della chiesa, vero punto focale, l’arazzo Xanî Xanî Xanî, parola curda traducibile con “casa”. L’opera si pone come vessillo di libertà negata, sindone di un martirio contemporaneo, quello di un popolo che pur esistendo non è riconosciuto e della sua terra divisa tra quattro stati, in una chiara prevaricazione della geografia politica su quella umana e sociale.
Alla irrequietezza della geografia e alle molteplici questioni che animano il planisfero, si collega anche la ricerca di Glenda León (La Habana, 1976) artista cubana che dedica pari attenzione alle questioni sociali e a quelle politiche, alla micro e alla macrostoria. “Una gamma mista di spazio e tempo mutevoli” definisce le sue opere il curatore, mettendone in risalto le potenzialità polisemiche e trans-iconiche. Nel video Dirigir las nubes, una mappa evanescente in cui i continenti si definiscono nelle nuvole in movimento, ricordandoci la mobilità dei rapporti geopolitici e al contempo l’instabilità dell’essere umano, trasportata dagli eventi della storia, fluttuante come una nuvola. Ai paradossi e alla costante mutevolezza della condizione umana guarda anche il video Hablando con Dios. Un gruppo di giovani è ripreso in chiesa con capo chino, in atteggiamento apparentemente di preghiera. Una osservazione più attenta li rivela però intenti ad osservare il cellulare. Nel mondo contemporaneo la socialità virtuale si è sostituita all’intimistico rapporto con il divino.
Ai processi della storia, sempre forieri di cambiamenti, guarda anche Lina Selander (Stoccolma, 1973). In The Weight of Images un tavolo su cui sono poggiate delle mele si rivela essere una sorta di schermo che restituisce immagini riferibili all’olocausto degli ebrei. Sotto le poetiche sembianze di una natura morta, carica di riferimenti storico-artistici, si cela la tragedia dell’uomo.
Ai processi di conoscenza del reale, alle possibilità classificatorie e comunicative, si rivolgono infine i lavori di Paola Mancinelli (Taranto, 1974) e Antonio Della Guardia (Salerno, 1990). La prima, sensibile poetessa oltre che artista visiva, in La nostalgia del nome pone l’uomo di fronte alla sua fallibilità, facendo urtare la sua presunzione di conoscere e misurare il tutto alla possibilità dell’inconoscibile, dell’insondabile. Le opere di Della Guardia invece prendono spunto dagli studi del medico William Horatio Bates (1860-1931), autore di un metodo di rieducazione della vista senza l’uso di occhiali, rivelatosi scientificamente infondato. Nel ciclo Per un Prossimo Reale propone interventi scultorei in cui le tradizionali percezioni e conoscenze si aprono a possibili diversioni, richiedendo l’intervento dell’immaginazione e della messa in discussione.
«I cinque artisti – precisa il curatore – restituiscono a modo loro gli ambiti multiformi e impregiudicati della realtà. A ogni artista corrisponde una deviazione cognitiva e visiva. Ciascuna deviazione ci allontana dai campi abituali e ci avvicinano a immagini nate dall’esplorazione, dal racconto, dalla negoziazione». La realtà si rivela un sistema multiverso, carico di incognite e deviazioni, da interrogare e comprendere nella sua non linearità, nel suo non essere.
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