Tra lavori di fascino ed enigmi insoluti è finalmente inaugurata Fatmah, la tanto attesa mostra d’apertura del nuovo spazio di Contemporary Cluster a Roma. Si tratta della 114 esposizione realizzata dal gallerista Giacomo Guidi. Sotto all’araba parola-ombrello del titolo, accattivante in un momento in cui il focus socio-politico è sulla guerra Israele/Palestina, si cela un augurio di rinnovamento e di crescita. Tuttavia, per quanto l’espressione possa suggerirlo, l’iter non si compone affatto di narrazioni mediorientali: ad attendere il fruitore è il manifesto della galleria, protesa verso nuovi orizzonti. La collettiva, si articola in un pulito assemblage di pezzi palesi e mimetici, in assonanza e simmetria, con opere di artisti giovani e giovanissimi, tra Italia ed estero.
L’abilità sui generis dell’iraniano Arvin Golrokh (Teheran, 1992), unica voce tradizionalmente pittorica del coro, annuncia la sottile e seducente volontà estetica e anti-narrativa di Linus Rauch (Berlino, 1984), i cui lavori aprono al concetto di pittura senza pittura. Si tratta, infatti, di giustapposizioni di stoffe, traino di memorie e trasformazioni, in un richiamo indiretto all’essere umano, nelle sue necessità quotidiane e proporzioni auree.
Seguono, in connubio, le stratificate opere di Franziska Reinbothe (Berlino, 1980), la cui ricerca, iniziata nel 2011, ha condotto, in un approccio analitico del supporto, a un tipo di pittura scultorea. Le sue tele, piegate e sconnesse, sconfinano nella tridimensionalità, nell’anelito a mostrare – complice la miopia dell’artista – elementi nascosti della materia. I lavori della diade berlinese svelano, tra le righe, uno dei temi portanti dell’intera mostra: la decostruzione del linguaggio e il dialogo con il tempo.
A questo tema, s’innesta, senza svanire, un altro focus, più in sottotono, quasi a non voler essere notato, che è quello del legame tra arte e animalità, organico ed artificio, umano e non umano. Uno dei refrain più stimolanti del contemporaneo, che tocca i più della collettiva. È il caso del delicato linguaggio di Nicola Ghilardelli (Como, 1994), tra fito e zoomorfo, con le sue colonne istoriate in terracotta, custodi delle scie luminescenti di alcune lumache e il piccolo fregio con inserti in rame, che paiono escrescenze di corallo. Più netto il tono espressivo di Jacopo Naccarato (Arezzo, 1995), le cui opere, ieratiche, precipitano in un mondo simbolico tribale, da cui pure fanno capolino richiami a maestri storicizzati. Stimabile, di entrambi, lo sperimentalismo della materia, mai forzata, ma finemente analizzata nei suoi aspetti chimici, sulle tracce di connessioni inedite. Legno, gomma siliconica, alluminio, ottone, policarbonati dalle parvenze di ambre o cristalli.
Più lunare la poetica di Lorenzo Montinaro (Taranto, 1997) che ambienta le sue opere entro silenzi neo-sepolcrali. Mosaici e tavole di freddissimi frammenti lapidei, un pendolo senza lancette, vetrini specchianti o annebbiati, animali impagliati, scie di sangue. Un corredo artistico che sembrerebbe, sulle prime, emergere direttamente dai racconti di Poe e che si permea, invece, di una fascinazione cimiteriale che ha il sapore delle radici pugliesi dell’artista, rispettate nelle sue tradizioni.
Le uniche due isole senza veri legami sono le opere di Giuseppe Lo Cascio (Palermo, 1997) e Sofiia Yesakova (Berlino, 1998). Il primo è stato residente alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, dove ha affrontato il tema dell’archivio, da cui un dittico di sculture dal taglio brutalista. Riproduzioni in plastilina degli schedari Olivetti che però non trasmettono nulla, restando muti.
Il lavoro della seconda – un’artista ucraina rifugiata in Germania – pur in perfetto dialogo, nelle cromie, con le altre opere in mostra, resta un assolo maschile e obliquo, un buco nero dall’accento un po’ troppo criptico e un po’ troppo pretenzioso. Che apre, come molte realtà espositive hanno già fatto, uno spiraglio di riflessione sul conflitto con la Russia, di cui sarebbe più interessante osservare la produzione della controparte sovietica.
A due passi da innumerevoli altre realtà artistiche romane, su una tranquilla strada che incontra la fatale Piramide Cestia, il nuovo Contemporary Cluster, con le sue vetrine su strada dal sapore anni ‘70, in perfetta mimesi con il contesto, è un nuovo spazio white cube.
Per chi ha seguito il Cluster, è presto, forse, per dimenticare l’ambigua e complessa semantica di Palazzo Brancaccio. Con i suoi altissimi soffitti, le vaste finestrate su giardino, il dedalo in sali scendi delle sale, le pareti raf. Il white cube resta un punto interrogativo, cui sempre più gallerie rivanno incontro, in un ritorno inaspettato e non del tutto compreso.
Perché esporre le opere alla mercé della bianca luce ospedaliera in luogo di contesti narrativi, con un’anima non azzerata? La sfida con il luogo è parte del gioco. Ma tempo al tempo.
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