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Difficile, il paradiso: intervista a Maria Papadimitriou
Arte contemporanea
Tornano ad animarsi gli spazi di Torre Matta ad Otranto. Artefice ancora una volta della riapertura è Cijaru, duo curatoriale composto da Francesco Scasciamacchia e Davide De Notarpietro che, tenendo fede al progetto di dialogo tra antico e contemporaneo, passato e presente, micro e macro inaugurato lo scorso anno con la personale di Maria Domenica Rapicavoli, ha invitato Maria Papadimitriou a dar luogo ad un inedito progetto espositivo che partendo dal Salento approdasse ad una riflessione più generale, transitando dal particolare all’universale. Elemento generativo dell’intervento idruntino, intitolato “Non-existing paradise” e curato da Gabi Scardi, è il mosaico pavimentale della Cattedrale idruntina, quasi un passaggio obbligato per quanti, artisti e non, approdano nel Salento. Il mosaico, infatti, oltre ad offrire uno straordinario atlante iconografico su cui riflettere e da cui trarre ispirazione, rappresenta un insostituibile condensato di cultura medievale in cui religioni, credenze, tradizioni e saperi si incontrano e si intrecciano in un’inestricabile matassa da cui è impossibile trarre un filo senza dipanare l’insieme. Maria Papadimitriou tenta questa operazione facendone derivare un rinnovato incontro tra sensibilità mediterranee e dando forma ad un dialogo tra Oriente o Occidente da cui emerge un nuovo anelito alla trascendenza. Abbiamo incontrato l’artista per farci raccontare genesi e sviluppo del progetto.
Il tuo lavoro è fortemente incentrato sulle relazioni e generalmente riflette i contesti in cui operi. Ma quando crei un’opera da quali elementi parti?
Indago su progetti basati su processi collaborativi e attività collettive che evidenziano l’interconnessione tra arte e realtà sociale. Nel caso di Torre Matta ho fatto una grande ricerca sul mosaico della Cattedrale Santa Maria Annunziata di Otranto che esprime un labirinto di religioni. Sono venuta ad Otranto per visitare il mosaico ma anche il topos. Mi sono sentita molto toccata dal paesaggio degli ulivi morti e pensando al mosaico sono tornata all’idea del mosaico stesso: la natura, gli esseri umani e gli animali dovrebbero vivere in armonia. L’Albero della Vita mi ha fatto pensare al nostro presente: guerre, pandemie, crisi socio-economiche, la natura che sta morendo. Del resto cerchiamo di risolvere il mistero dell’inizio di tutto. Abbiamo solo la prima foto del buco nero e con il nuovo telescopio siamo molto vicini a scoprire come è stato creato l’universo. Nei diversi simboli di tutte le religioni – buddismo, mitologia greca, ebraismo, islamismo – vediamo il bene e il male, la punizione e il perdono, l’inferno e il paradiso perduto.
“Non-existing Paradise” è il progetto ideato per Torre Matta a Otranto. Puoi spiegare il titolo e come esso descrive il progetto?
La mostra si presenta come una sorta di paesaggio animato da sculture animali che rappresentano i regni della terra, dell’acqua e del cielo, installazioni che evocano la torre di Babele, l’arca di Noè, palazzo, regalità e ricerca di saggezza; al centro la figura ibrida di un re-pastore, uomo e animale allo stesso tempo. In questo paesaggio si manifestano le tensioni sottese alla realtà, del passato e dell’oggi: vita e morte, aspirazione a risorgere e crolli catastrofici, natura e cultura, umanità e animalità. Non-existing paradise è un’affermazione in cui si è persa la visione non gerarchica e non antropocentrica del mondo. Il disastro ecologico che vediamo ora in Puglia, rappresentato in questa mostra da un ulivo morto da xylella (parallelo e controparte dell’albero della vita del mosaico, simbolo di rinascita) non è un problema locale ma ci dice molto sul modo in cui abbiamo pensato fino ad ora: l’assunzione della superiorità dell’uomo sulla natura e sul regno animale in generale. Tra gli altri elementi che popolano Non-existing paradise, un uccello, un pesce, un leone, una canzone – Segmenti Uno dell’artista Demetrio Stratos – evocano il linguaggio non umano, la parola perduta o mai posseduta di creature nascoste nell’ombra. Questa voce esprime una lotta interiore ancestrale, radicale, indicando allo stesso tempo la nostra natura animalesca. Il paradiso perduto, o il paradiso inesistente, se da un lato mostra il disastro della visione antropocentrica, dall’altro potrebbe rivelare un paesaggio popolato da animali, la natura rigogliosa e l’indiscussa presenza delle donne (celebrata dalla figura di Eva nella mostra).
Nel 2015 sei stata invitata a rappresentare la Grecia alla Biennale di Venezia. Hai deciso di trasferire la vecchia bottega di un venditore di pelli al padiglione nazionale. Come è nata l’idea di Agrimika e come pensi che rappresentasse il tuo Paese all’epoca?
Why Look at Animals – Agrimika è un adattamento poetico di una strada di Volos con un negozio di pelli di animali al centro, una taverna e uno studio d’artista. Attraverso questo lavoro ho ritratto un individuo, una situazione locale, un paese e una svolta geopolitica. Allo stesso tempo esprimo una questione universale verso gli “altri”, per esempio gli animali, verso i quali possiamo comportarci nei modi più arbitrari, spudoratamente, senza limiti e senza pensare a quanto possa essere ingiusto. L’opera spiegava come si possa creare un margine per confinare l’altro, lo straniero, il diseredato, l’incomprensibile o il resistente, ma anche sulla discriminazione e la paura, e sui valori o la mancanza di essi. Why Look at Animals – Agrimika richiamava l’attenzione critica sulle tensioni e sui problemi della Grecia nel presente. La Grecia è un paese che non è riuscito completamente a modernizzarsi. Presa da una sorta di inerzia, resiste alle regole e alle norme internazionali; in un certo senso, resiste ad essere addomesticata. Per questo, in nome dell’efficienza, è stata spinta ai margini della struttura politica e ha rischiato di essere espulsa dall’Unione Europea. L’installazione era densa e carica perché si tratta di una realtà complessa e stratificata. Soprattutto parlava della controparte del successo; tutto era in contrasto con l’eroico e la glorificazione.
Il progetto per la Biennale era curato da Gabi Scardi, che oggi cura anche il tuo lavoro a Otranto. Come è nato il vostro rapporto di lavoro e su quali basi si fonda?
Il nostro primo progetto insieme faceva parte del progetto europeo “In Itinere”, ideato da Nicola Sansò, nel Salento. La mostra si è svolta nel 2003. Come l’attuale Non-existing Paradise, anche in quel caso la mostra è staata generata da un’esperienza diretta sul territorio. La mia installazione era in un paese che fa parte della Grecìa Salentina a Sternatia presso l’ex Convento dei Domenicani.Prima dell’intervento abbiamo trascorso lunghi periodi viaggiando per la Puglia. Abbiamo avuto una comunicazione fantastica. Da quel momento in poi abbiamo realizzato tanti progetti insieme. Per quanto riguarda Why Look at Animals – Agrimika Gabi ha avuto l’idea di propormi per il Padiglione Greco. Era un invito aperto, Gabi ha presentato il mio lavoro e ci siamo riusciti.
La Puglia è sempre stata una terra con un legame speciale con la Grecia. Otranto è il tuo primo lavoro in Puglia?
C’è un legame speciale tra Puglia e Grecia, non c’è dubbio, una vera consonanza a livello umano e culturale. Del resto la Puglia è sempre stata crocevia e frontiera, luogo di incontro e confronto. Pensiamo ad esempio alle persone che parlano il Griko, una lingua speciale parlata nella Grecìa Salentina. Il Salento è un microcosmo le cui identità e socialità sono profondamente radicate in un clima di tipo mediterraneo; la sua posizione geografica ne ha fatto anche il luogo per eccellenza di una storia di integrazione e assimilazione di popoli e culture diverse. Uno di questi è Sternatia, dove sono stata invitata per la prima volta da Gabi Scardi nel 2003 nel progetto “Initinere” di Nicola Sansò per realizzare un intervento nell’ex convento dei Domenicani.
Ritieni che questo antico legame tra le due sponde dell’Adriatico abbia in qualche modo influito sulla concezione del progetto da realizzare ad Otranto?
Il mosaico stesso ha direttamente a che fare tanto con la mitologia greca quanto con la vita reale. Nel Salento inoltre ci sono molti nomi greci tra i villaggi, paesaggi simili, caratteristiche mediterranee simili tra le persone. C’è una sorta di tratto che ci appartiene. C’è una generosità speciale, ti senti come a casa e senti che condividiamo la stessa cultura. Sono molto contenta di essere ad Otranto e per lavorare qui ho conosciuto tante persone diverse, ho frequentato tanti laboratori diversi e ho lavorato con tante persone fantastiche che ho incontrato durante questo viaggio meraviglioso. Per me è stato come essere autoctona. Qui mi sento a casa e questo è il valore di questi progetti. Penso di avere una famiglia qui ora.