17 giugno 2022

Documenta 15: il “lumbung” è arrivato a Kassel?

di

Sotto il titolo di "lumbung", ovvero "risaia comune", si è aperta a Kassel la 15ma edizione di Documenta. Diversa, come non poteva essere altrimenti. Ecco una prima ricognizione

Dan Perjovschi sul colonnato del Fridericianum

Che questa Documenta 15 non sarebbe stata “allineata” -nel senso di una manifestazione con i crismi occidentali che si riservano all’arte contemporanea- era nell’aria, e infatti le aspettative offerte dal collettivo Ruangrupa non si sono fatte attendere.
Sotto il titolo di lumbung (termine indonesiano che indica una risaia comune) nella prima giornata di preview, dal Fridericianum alla Documenta Halle passando per il Museo Otoneum, lo Stadtmuseum e le varie installazioni sparse in città, dalla Hauptbanhof al grande e splendido parco di Karlsaue, l’infilata dell’unico tema possibile -la condivisione- è declinata in tutte le salse. Che siano documentazioni di proteste, spazi progettati per abitare insieme, o ambienti pensati per i più piccoli, l’arte -il riso- è da consumare in maniera comunitaria.
É una stroncatura? No. Lo sarebbe se i Ruangrupa avessero voluto mettere in piedi una Documenta che esulasse dalla loro cultura, e non fossero riusciti nell’intento: invece il collettivo di base a Jakarta, secondo chi scrive, è riuscito benissimo a creare questa idea di lumbung.
Così viene a crollare ogni pensiero ostile rispetto alle naïvite che formano questo lungo percorso, snodato su oltre trenta spazi espositivi: il rifiuto all’accoglienza di nuovi temi e soprattutto ad un nuovo modo di intendere l’arte appartiene al nostro occhio anestetizzato ai dogmi del “vecchio mondo”, mentre il nuovo per certi versi sembra ben più felice (o per lo meno sereno) e forse di questa lezione dovremmo fare tesoro.
Eppure c’è qualcosa che stona, in queste digressioni del politicamente corretto, a partire dai messaggi di propaganda che ci accolgono sulle colonne d’entrata del Fridericianum e che riportano -tra gli altri slogan- anche l’orrendo “Andrà tutto bene” usato in Italia nella primavera 2020 durante la prima ondata di Covid19, quando era ben intuibile che bene non sarebbe andato un tubo. E il peggio è che si tratta dell’intervento di Dan Perjovschi, che pare aver perso un po’ di smalto anche nei messaggi disegnati a terra nel piazzale della stazione di Kassel.

Wajukuu Art Project, Slum Art Festival, Wajukuu, 2018, Photo: Shabu Mwangi

Ancora: quello che non accorda col presente è la stessa naïvite che rende interessante questa Documenta 15, lontana dal mondo e -chiaramente- anche dal mondo dell’arte inteso alla maniera europea, occidentale: il bagno di folla degli opening delle manifestazioni dei passati quinquenni è ben lontano.
Ci si domanda se dall’arte, davvero, abbiamo bisogno di un asilo d’infanzia, di panchine assemblate, di colonne sonore di 180 minuti soporifere a omaggiare tronchi d’alberi sotto una bara-serra di vetro (al Komposthaufen, una delle sedi di Karlaue) o degli ennesimi ritratti di una gioventù “queer” per decolonizzare il nostro corpo. Tutto questo assioma, questo “impianto teorico” che continua a battere sui temi che fino a ieri sono stati definiti “urgenti” dalle agende politiche, non morde nel senso giusto: oltre al riso c’è il minestrone e tutti i connessi di un’abbuffata che già conosciamo a memoria e che -scalda che ti riscalda- ha perso sapore.
Ed è semplicemente ingenuo pensare che necessario sia il “collettivo” per fare la differenza, visto che dalla terra dei Ruangrupa, così come dalla stessa Europa, il collettivo è sempre stato una dimensione di produzione di senso e beni materiali: fate presente, a chi si straccia le vesti dietro l’importanza del lavoro comunitario che la storia dell’uomo è fatta di comunità, a qualsiasi latitudine ci si posizioni e soprattutto a qualsiasi scopo, sociale o commerciale.
Altra cosa ben poco lusinghiera, nei nostri confronti occidentali, è lo sguardo colonialista: davvero mettiamo in scena l’arte non allineata al mercato e al collezionismo globale (ma che potrebbe in breve diventarlo) per promulgare un’idea anti-coloniale?
Semplicemente, più sinceramente, ci stiamo lavando la coscienza di fronte a chi già detiene un privilegio, uno stato sociale: gli artisti e gli addetti ai lavori (e poco importa la latitudine di provenienza). D’altronde siamo a Kassel, in quella che è considerata la manifestazione d’arte contemporanea più in vista del mondo, e in barba a tutte le chiacchiere la “forma” si mantiene ben intatta: non si sono invitati contadini o pescatori a decolonizzare la nostra idea di spazio pubblico -chessò, per esempio creando una risaia ai bordi del fiume Fulda- né sono stati creati veri e propri scambi. Si va avanti per “attivazioni”, con “dimostrazioni”, e con la morale globale.

El Warcha, Courtyard project, Hafsia, 2019, photo: Inês F. Marques, courtesy El Warcha

Per quanto riguarda allestimenti e ambienti, diciamo la verità, alcune sale del Fridericianum e della Documenta Halle non sono affatto male.
El Warcha, Keleketla! Library, la Godskul indonesiana dei Ruangrupa, con il Centre d’Art Waza sono alcuni dei collettivi che hanno trasposto qui i loro spazi di lavoro, invitando il pubblico a scoprire, a osservare, a immaginare, a prendere parte o a portare la prole, per imparare insieme: oltre al programma RuRuKids, negli spazi della hall del Fridericianum, larga parte al primo piano è stata data al percorso d’infanzia creato da Graziela Kunsch, che va dal fasciatoio agli scivoli per i più cresciuti.

Archives des luttes des femmes en Algérie, a collection of Algerian women’s rights and feminist collectives and associations’ documents, dating from the 1990s, Algiers, 2020, photo: Hichem Merouche, courtesy Archives des luttes des femmes en Algérie

Dalla culla dell’infante si passa in un baleno a quella del diverso, con l’Archives des luttes des femmes en Algérie (che ripercorre le proteste femminili nel Paese africano negli anni ’90, sotto forma di documenti), oppure -uscendo dal museo- con la tenda dell’Ambasciata Aborigena di Richard Bell.

Richard Bell, 2018, photo: Savannah van der Niet, courtesy the artist and Milani Gallery, Brisbane

Già alla Biennale di Jakarta del 2015, con lo stesso progetto, Bell -nato nel 1953 da una famiglia di attivisti aborigeni e membro delle comunità Kamilaroi, Kooma, Jiman e Gurang Gurang- a Kassel ripropone la sua tenda come “simbolo di resistenza alla struttura del potere coloniale che ancora ci opprime”, una creazione che l’artista ha realizzato per raccontare il malcontento di Blackfellas (nome con il quale i nativi aborigeni australiani definiscono se stessi), per le politiche di assimilazione nel Paese: “Questo malcontento richiedeva di tracciare una linea nella sabbia. Quella linea nella sabbia è un’opera d’arte”.
Al Fridericianum c’è anche diversa pittura, ma non è contemporanea. C’è per esempio Mara Olàh, artista non allineata dal tratto slavato e affascinante, e poi ci sono Ceija Stojka che racconta l’olocausto rom, mentre János Balázs fu il primo artista rom-ungherese ad affermarsi come tale, dietro una serie di soggetti che ricordano la tavolozza bruciata di alcuni Van Gogh.
La perfida domanda che sorge agli occhi di un maschio bianco occidentale, ora, è la seguente: se scorporassimo il dato biografico della tragedia dalla vita di queste personalità, il valore delle loro opere resterebbe il medesimo?

János Balázs

Chiudiamo questo primo report con una constatazione fisica: le didascalie e i brevi apparati testuali che raccontano la mostra al visitatore molto spesso sono state installate molto basse o molto alte: diverse volte per potere vedere le opere viene chiesto di sdraiarsi o di sedersi, e nel complesso vi sono -e questa è cosa buona e giusta- decine di divani, cuscini panche, sedie e amache dislocati ovunque per esperire il lumbug in una posizione di riposo. Sarà forse questo il senso dell’arte di domani?

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui