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“Doppio io”: collezioni francesi a confronto
Arte contemporanea
“Double Je” è una mostra singolare che presenta oltre 180 opere e una cinquantina di pubblicazioni della collezione di Liliane e Michel Durand-Dessert e donata di recente al Musée d’art moderne et contemporain di Saint-Étienne. Il percorso mette a confronto opere della collezione museale con quelle della donazione, e ripercorre al contempo la storia di questi due rinomati galleristi d’arte che, dal 1975 al 2004, hanno sostenuto con lungimiranza e impegno la creazione contemporanea anche in periodi di magra per il mercato dell’arte. Clio, Urania, Melpomene, Talia, Tersicore, Erato, Calliope, Euterpe e Polinnia, le muse di Apollo, come numi tutelari, denominano le sezioni dell’esposizione che si disloca lungo mille mq e dove s’incrociano oltre quaranta artisti come Beuys, Richter, Hilliard, Boetti, Merz, Kounellis, Lavier, Tatah o Garouste. Questi coprono la creazione dagli anni ’60 agli anni ’90, passando per l’Arte Concettuale, Arte Povera o Radicale come pittura, scultura, installazione, fotografia, libri e mail art, e via dicendo. Curata da Alexandre Quoi, capo del dipartimento scientifico del museo, la mostra gioca sulla figura del doppio, Double Je, appunto. Presente nell’arte sin dall’antichità, il doppio porta in sé il seme dell’illusione, del paradosso, della trasformazione come della dualità. I See a Black Light (inchiostro stampato su tela, 1987) di John Hilliard (Lancaster, 1945), opera faro della mostra, rivela due figure umane e asessuate ricoperte interamente da una calza, una chiara e l’altra scura, che puntano fasci di luce al centro dell’immagine. Fotografo e artista concettuale inglese, Hilliard si è interessato da sempre alla percezione nella società del doppio in fotografia cioè del doppelgänger, sosia in italiano.
I Durand-Dessert avevano già offerto al museo opere quali Schädel (cranio) del 1983, un dipinto di Gerhard Richter, e L’Occhio di Dio (1969), una scultura di Luciano Fabro, qui presentati. Composta da un triangolo di mogano lucido appoggiato su fasci dorati che puntano tre estremità opposte, la creazione di Fabro è ricca di significati, rimanda per esempio al simbolo massonico riprodotto sulla banconota da un dollaro statunitense come sui muri di alcune chiese. Donata nel 1988, quest’opera testimonia il forte interesse della coppia per l’Arte Povera ma anche del loro desiderio di introdurla nelle collezioni museali. Una sala è dedicata all’arte precolombiana attraverso quarantacinque mirabili oggetti d’Arte Olmeca – alcuni sono esposti per la prima – questa costituisce una sorta di parentesi spazio-temporale per una riflessione sul senso e la definizione di opera d’arte.
Notoriamente usata da artisti come Christian Boltanski, incrociamo sempre più in fiere e in gallerie la fotografia anonima e amatoriale, e questa mostra non fa eccezione grazie a un lavoro intorno alla notizia di cronaca dell’insegnante Gabrielle Russier. Una vicenda giudiziaria avvenuta nella Francia degli anni ‘70, e che si è conclusa col suicidio della donna accusata e poi incarcerata per aver avuto una storia d’amore con uno studente. La storia è qui rivelata da L’affaire Gabrielle Russier, una serie di litografie (1970) del Collectif – composto da Bernard Alleaume, Henri Cueco, Jean-Claude Latil, L. Mikaeloff, Michel Parré e Gérard Tisserand – che denuncia la società reazionaria di quel periodo e afferma al contempo il ruolo politico dell’arte. Un’opera questa creata in occasione della mostra “Qui tue? Vérité sur un fait divers: L’affaire Gabrielle Russier” al MAM di Parigi.
Bella fotografia in Ongles n° 2, n° 4, n° 6, n° 10, n° 17 (1991) di Patrick Tosani che s’interroga sulle potenzialità e i limiti del mezzo fotografico qui in dialogo con il rigore della serie Raccordi per pozzi di miniere (12 fotografie in bianco e nero, 1966) di Bernd et Hilla Becher, creata appositamente per il MAMC+. E tanto altro da scoprire in questa esposizione aperta fino al 18 settembre prossimo.