Ciao Irma.
La Galleria P420 di Bologna ha annunciato così la scomparsa di Irma Blank, pioniera della relazione tra arte concettuale, linguaggio, segno.
Nata a Celle, in Germania, nel 1934, Irma Blank si trasferì in Italia negli Cinquanta avviando verso la fine degli anni Sessanta, «dopo un lungo travaglio esistenziale e creativo, in un clima di sperimentazione linguistica», un’approfondita e coerente – nel lungo corso della sua intera vita e ricerca artistica – indagine sulle forme e sul senso della scrittura. «Restituisco l’autonomia al segno, al corpo della scrittura, per dare voce al silenzio, al vuoto. Ai pensieri non pensati. Scrittura non legata al sapere, ma all’essere. La scrittura è la casa dell’essere».
«Ho indagato gli abissi dell’io, l’archivio individuale e collettivo del passato e del presente, ho interrogato il mondo, il rumore del mondo, scrivendo. Ho scelto i miei strumenti senza pregiudizio, secondo le necessità, dalla matita alla penna, dal pennello alla biro, dall’inchiostro alla china, dal pastello all’acquarello, dall’acrilico all’olio. Ho scritto a mano e in digitale». Furono le sue stesse sperimentazioni a convincerla che il pennello poteva essere lo strumento idoneo. Pur non avendo mai pensato di dipingere, perché i suoi gesti appartenevano alla scrittura, con il pennello piatto poteva andare «lentamente, con estrema concentrazione, da bordo a bordo, da sinistra a destra, dal pieno al vuoto».
Irma Blank è sempre sfuggita alla labilità e all’ambiguità della parola per liberare la scrittura dal senso e metterne in evidenza la struttura, l’ossatura, il segno nudo, che come tale che non rimanda ad altro che a se stesso. É così che rimanda «al serbatoio energetico, alla spinta iniziale, la spinta sorgiva, al desiderio di rivelarsi, di uscire dal luogo della notte, segreto, chiuso. Traccia di pura energia. É la parte portante, la parte perenne, universale, non più legata a nessuna lingua in particolare».
Due colori primeggiano nella sua creazione: il rosa, ma soprattutto il blu. «Rosa è il colore dell’individuazione, di orientamento, di analisi e di attesa, l’ho usato in tutte le tonalità nella prima fase dei Radical writings. Poi è entrato in scena il blu, deciso, perentorio. È il colore dell’inchiostro, dell’infinito, dell’utopia. È il colore della scrittura per eccellenza e si condensa nel libro d’artista Ur-Buch ovvero Romanzo Blu del 1997, con un corpo di fogli di carta velina blu. È il trionfo del blu che rimanda a tutto l’inchiostro versato nei secoli e apre all’immensità degli spazi, all’infinito».
Politica e poetica Blank ha operato tra le fila dell’Arte Concettuale, distinguendosi per questi suoi automatismi segnici che sostituivano i tradizionali parametri scrittori con una scrittura non verbale, che rimane in silenzio, che è verità originaria. La scrittura di Irma Blank era e sarà sempre immagine, manifestazione dell’essere, dell’esser-ci, nell’assolutezza senza forma.
Come la sua scrittura così le sue opere e le sue mostre, molte delle quali con la Galleria P420 – tra cui Alfabeti della mente (assieme a Hanne Darboven, Mirtha Dermisache, Antonio Scaccabarozzi, Dadamaino, Edda Renouf, Jan Schoonhoven, Anna Maria Maiolino, Marcia Hafif, León Ferrari e Carlo Alfano), Senza parole, Artist’s books: editions and originals e Life Line – non erano asservite al senso ma purificate dal senso e cariche di altre valenze, tutte germinative. Come «Un testo aperto. Un testo per tutti. Per coloro che sanno leggere e per quelli che non sanno leggere. Faccio slittare il testo dalla letteratura alle arti visive. Intanto anche nel mondo che ci circonda l’immagine tende a sostituire la parola. Invasivamente. La televisione e la pubblicità ne sono esempio. Scrittura, luogo di perdizione e di ritrovamento», scriveva l’artista.
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