Negli edifici della Sonart, un luogo storico della produzione televisiva belga destinato a essere demolito all’inizio del 2020, la coppia di artisti Milena e Robberto Atzori realizza un’imponente mostra che riassume due anni di vita privata, di ricerca e di produzione vissuti nella città di Bruxelles. I volumi architettonici dello studio di registrazione, nascosti prima dalla presenza di un labirinto tessile e poi da una serie di stanze concatenate, si rivelano in tutta la loro monumentalità allo sguardo dello spettatore che accede alla sala-wunderkammer. Qui centinaia di opere tessili, pitture, sculture, assemblaggi e oggetti trovati abitano il teatro di posa dando vita a un racconto in cui si mescolano riti e fantasmi dell’Italia meridionale, ossessione del collezionismo e un gusto scenografico per la cura dello spazio.
Iniziamo dal titolo. A M E N inscrive la mostra e la vostra ricerca all’interno di uno spazio del rito che allo stesso tempo presuppone l’attivazione di un discorso, di un dialogo…Potreste parlarmene più a fondo?
«Robberto e Milena Atzori: Iniziamo dal principio, partendo dalla fine: dopo due anni di collaborazione e di produzione volevamo creare una mostra che al tempo stesso concludesse un periodo e ne iniziasse un altro, e nella parola AMEN abbiamo trovato la chiave di volta. Amen, etimologicamente, deriva dall’avverbio ebraico אמן (ámén) che significa in verità. Amen è presente in tutte le culture nate nel Medio Oriente – tra cui ebraismo, islam e cristianesimo – ed è pertanto sinonimo di unità, di superamento di confini culturali, territoriali e religiosi. Fatta questa breve premessa, la parola stessa rappresenta per noi il preciso istante in cui un discorso tra almeno due interlocutori finisce e lascia spazio a un augurio volto a esaudire il concetto che è alla base di quello stesso discorso. In altri termini, possiamo dire che Amen è la parola cardine che pur legando due momenti, al tempo stesso li separa. A M E N vuole essere il punto in cui i nostri passati si intersecano, avviandosi verso il futuro».
Parlando della mostra Milena ha detto che «ogni opera è come la cristallizzazione di un preciso momento» della vostra vita. Potreste raccontarmi il vostro processo di lavoro e come questi nuclei di vissuto privato vanno ad addensarsi all’interno di una narrazione più ampia? Per intenderci: è come se un racconto quasi diaristico diventasse un racconto epico in cui si intrecciano questioni fondamentali per l’uomo come eros, thanatos ecc…
«Ci pensiamo spesso, soprattutto dopo un viaggio, una discussione, un proverbio, o dopo aver vissuto una brutta esperienza. Spesso prendiamo in considerazione quei fatti, vissuti o sentiti raccontare, nelle leggende o nella diceria popolare, che sono caratterizzati da tre elementi: il loro perdurare nel tempo, il fatto di colpire l’immaginario di entrambi, e l’essere portatori di una sorta di lezione morale che possa nel futuro fare in modo che lo stesso errore o la “stessa strada non si percorra due volte”. È in questo punto che nasce per noi il bisogno di creare il feticcio, l’opera che da una parte esorcizza il passato e dall´altra diventa quasi autonoma. Proveniamo entrambi da realtà con storie antiche e con modi di dire e abitudini ancora più antiche, in cui le persone – e i loro usi – fanno in modo che queste storie si ripetano ciclicamente. Da qui, un po’ come chi bruciando il fantoccio di cartapesta cercava il modo di far finire l’inverno, così noi, creando le opere di A M E N, cercavamo il modo di far concludere un nostro passato».
La mostra è il risultato di uno sforzo produttivo piuttosto impressionante, eppure tutto è stato realizzato in autonomia da una serie di sistemi tanto di finanziamento quanto di legittimazione. Al punto che collocare il vostro lavoro all’interno del sistema dell’arte contemporanea risulta complesso e poco rilevante. Che valora ha per voi questa autonomia? In qualche modo ha a che fare con un’espressione di libertà?
«Veniamo da due trascorsi convergenti. Milena proviene da un passato politico attivo, nel quale la forte disillusione nei confronti di un senso collettivo l´ha spinta verso una profonda esigenza di autonomia. Io [Roberto N.d.R.] mi sono trovato a lavorare nell’arte contemporanea ad alti livelli sin dall’inizio, e la sensazione di fare parte di qualcosa mi portava di fatto a escludere chi non ne facesse parte. Da qui è sorto in entrambi un rigetto profondo verso lo spirito del branco, quella mentalità secondo cui si esiste solo se si è parte di un gruppo. Abbiamo deciso di produrre con le nostre possibilità una mostra al di sopra di quello che sono i canoni a cui siamo spesso abituati, per voler dimostrare a noi e ad altri che per farlo non servono grossi capitali, né aspettare miracolosi benefattori, né tantomeno accontentarsi mai».
Entrando in mostra il visitatore attraversa un labirinto, la stanza della vanitas, una stanza- cucina dedicata alla famiglia per poi arrivare nella wunderkammer, la sala centrale dell’edificio Sonart. Potete raccontare questa esperienza di attraversamento e la narrazione che ne scaturisce?
«La nostra produzione è molto variegata e ci siamo accorti che per mostrare tutto assieme il modo migliore era quello di guidare lo spettatore attraverso punti cruciali della nostra vita privata. Perdendosi nel labirinto, che è fatto di tessuto che quasi respira passandoci attraverso, si arriva nelle stanze della vanitas e delle ali di cera (che rispettivamente poi si scopriranno essere una chiesa e un circo) in cui affrontiamo quel leitmotiv presente in tante opere, ovvero la consapevolezza della precarietà delle cose legata al desiderio, comunque costante, di poter in qualche modo volar via dal labirinto della vita. Continuando a perdersi, si giunge nella stanza in cui abbiamo fatto performare, se così si può dire, i miei genitori – ovvero i suoceri di Milena. Qui lo spettatore si trova immerso in una situazione domestica in cui anche se l’arredamento è molto scarno, la sensazione di calore e l’umanità riportano quasi a scene di vecchi film di natale. Abbiamo voluto fino a questo punto mascherare la struttura che ospita la mostra per poter poi nella wunderkammer rendere quel senso di meraviglia che lo spazio ha generato in noi la prima volta che lo abbiamo visto. Nella wunderkammer tutto si rivela: il labirinto e le strutture di tessuto, tramite le quali prima si è passati inconsapevolmente, diventano vere e proprie scenografie della stanza di registrazione cinematografica. Il vecchio fondale delle riprese diventa un enorme cabinet de curiosités in cui le nostre opere si mescolano a oggetti trovati in viaggi o in strada. In questo parco giochi quasi felliniano, un mamuthones [maschera tipica del carnevale sardo N.d.R.] trampoliere alto tre metri si dondola su un’altalena che sembra scendere dal cielo, mentre una drag queen cammina nella stanza giocando a fare il ruolo della diva. La mostra cerca di narrare dentro un unico insieme tutto quello che passa dal momento dell’assimilazione di un vissuto, passando per l’elaborazione dello stesso a livello personale, fino alla sua trasmutazione in opera».
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