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A Torino Eugenio Tibaldi trasforma le abitudini del quotidiano in racconti fiabeschi
Arte contemporanea
Habitat 00 project #02 è un lavoro di Eugenio Tibaldi che si articola in più momenti. Nasce come realizzazione di un’opera progetto prima realizzato a mano, come disegno, e poi fisicamente come installazione/scultura. Il progetto va ad indagare il mondo intimo delle persone, fatto di quelle piccole cose quotidiane che tutti abbiamo e a cui non sappiamo rinunciare.
Spesso sono cose inconfessabili: piccoli oggetti, abitudini, idiosincrasie private, cose che non amiamo condividere se non con le persone che ci sono più vicine e spartiscono la nostra quotidianità, e a volte neppure con loro. Sono, insomma, quelle ritualità che abbiamo tutti, magari nel modo in cui facciamo colazione o andiamo a dormire, cose di cui non ci piace parlare quando siamo in società, perché vanno oltre la maschera che indossiamo, spesso e volentieri, quando saliamo sul palcoscenico del mondo fuori dalla nostra sfera intima. Quella fisica, come l’appartamento in cui abitiamo, ma anche e soprattutto quella dell’anima.

Ne nasce una sorta di racconto/ritratto molto intimo e privato, dai risvolti inattesi. Questo racconto/ritratto si sviluppa come un organismo vegetale, ricordando vagamente certe fiabe o miti antichi, seguendo la forma articolata e curva di un tronco cavo, per inoltrarsi lungo le ramificazioni e curvarsi accompagnando le fronde del vegetale.
Da qui, in collaborazione con Sutura, lo spazio torinese dedicato all’arte che indaga i rapporti tra arte e salute all’interno dello storico Istituto Fisioterapico di Via Sacchi, è nata, poi, una performance che coinvolge i pazienti del centro.
L’artista propone una lettura e descrizione della propria opera ai pazienti che desiderano partecipare, a cui è chiesto di disegnare su un foglio blu, con una matita bianca, ciò che del racconto più li ha colpiti. Può essere un oggetto, più oggetti, una scena, secondo il loro desiderio. Sotto la supervisione del personale del Centro, i pazienti sono quindi invitati a uscire, in qualche modo, dal personaggio del malato bisognoso di cure per collocarsi in una dimensione altra, fatta di fantasie e immagini. Allora una porta si spalanca verso il mondo interiore, il linguaggio dell’arte e delle favole prorompe in un contesto che per forza di cose ha aspetti alienanti, come quello del paziente che si sottopone a una visita o a una terapia, per ricordare alle persone che loro sono, appunto, tali. E quindi creature complesse e dotate di un mondo interiore ricco di sfumature.
Alla fine dell’esperimento, ad aprile, è previsto un finissage, sempre negli spazi di Sutura, in cui, insieme ad alcune opere dell’artista già in mostra, saranno esposte quelle tracciate a matita nelle sale d’aspetto dai pazienti coinvolti. Ne nascerà un’esposizione di geografie intime, racconti dell’anima uno diverso dall’altro, anche se tutti eco di quello proposto da Tibaldi.

Cambia qualcosa con questo esperimento? Non si può dire, ma certo si avvia una considerazione, un modo di vedere il mondo e le persone che, soprattutto nel contesto di una struttura sanitaria, arricchisce il contesto di una complessità preziosa, fornendo a tutti gli attori coinvolti (artista e curatori, ma anche personale medico e infermieristico e così via) qualcosa su cui varrà la pena riflettere.
Non è difficile, purtroppo, in molti casi (non mi riferisco naturalmente all’IFT) incontrare dei medici, in luoghi di cura, che si rivolgono ai pazienti chiamandoli con il nome della loro malattia. Qui, l’invito di Tibaldi si colloca sul piano opposto e pare voler ricordare a coloro che si trovano nella posizione del malato o del paziente una dimensione esistenziale completamente diversa, e molto più ricca e di valore, che li riguarda.
Attraverso l’arte la porta sul mondo altro, quello dell’immaginazione, parallelo alla realtà banale e quotidiana, si apre. Ora abbiamo uno spazio in cui rifugiarci, un luogo interiore, e anche un invito a cambiare lo sguardo e il modo in cui abitiamo quella che tutti i giorni chiamiamo realtà. Che sia in ambito medico e nosocomiale, oppure in qualsiasi altro luogo o situazione.

Tanto che viene da domandarsi, alla fine, che cosa sia più vero. Il mondo interiore fatto di immagini e rituali inconfessabili, oppure quello standardizzato della realtà di tutti i giorni, del balletto sociale in cui spesso e volentieri indossiamo delle maschere che poi confondiamo con noi stessi? E che succede se poi con queste maschere ci identifichiamo al punto di restarne prigionieri, fino a perdere il ricordo di ciò che abbiamo dentro e a credere di essere davvero quelle parti, quei ruoli sociali, quei clichés che devono intessere la nostra vita?
Rivolgere lo sguardo all’interno, a ciò che per noi davvero conta, alle piccole cose che riempiono di senso le nostre giornate, ricordarci che quel mondo non è solo qualcosa che facciamo noi, ma che tutti, anche gli altri, sono qualcosa, qualcos’altro, oltre la maschera che indossano tutti i giorni e dietro la quale si presentano a noi, quando le incontriamo nella “realtà”, ha il sapore di un esercizio zen. Ma, poi, cambia qualcosa? Probabilmente sì, forse in modo impercettibile, ma anche irrimediabile. Potrebbe anzi, forse, generarsi un paradosso: scorgere la complessità potrebbe avere l’effetto di renderci più semplici, meno rigidi, più tolleranti, soprattutto meno banali. Chissà, probabilmente più felici.
