Iniziamo oggi la prima puntata di una serie dedicate alla vita culturale contemporanea nella Capitale dell’Argentina, una delle metropoli globali più scosse dalla pandemia e che oggi si sta riaffacciando alla vita. Attraverso le voci di critici, curatori, artisti e addetti ai lavori vogliamo restituire un quadro fedele dei suoi protagonisti e delle sue tendenze.
María Carolina Baulo (Buenos Aires, 1976), storica dell’arte, critica e curatrice, vive e lavora a Buenos Aires collaborando con diverse gallerie e istituzioni. Da più di dieci anni scrive per la rivista Sculpture, una pubblicazione dell’International Sculpture Center fondata nel 1960. L’abbiamo intervistata per parlare del suo approccio curatoriale in occasione dell’opening di “Mind Games”, dell’artista Sebastián Masegosa (Buenos Aires, 1974) alla Fundación Mundo Nuevo.
Ci puoi raccontare l’idea del titolo “Mind Games”?
Il titolo della mostra di Masegosa si ispira alla canzone Mind Games, dell’omonimo album di Lennon uscito nel ’73. È diventata una sorta di pretesto per stabilire un gioco di parole. Tutte le opere esposte stabiliscono una dinamica fra di loro nell’intrecciare formati, supporti e materialità, e nel porgere una trappola per gli occhi, stimolando nello spettatore un dibattito tra il razionale e l’emotivo. Insisto sul concetto di “trappola per gli occhi” perché in questi lavori, a differenza della sua produzione precedente, si può intravedere una volontà iniziale di stabilire ordine nel caos. Linee guida, parametri che lui stesso ha segnato usando del nastro adesivo e attaccandolo al telaio, per poi levarlo e travolgere quelle tracce oltrepassando i limiti, o questa sorta d’ordine iniziale che ha utilizzato come punto di partenza. Guida, con la sua pittura, questo “trucco”, dove sembra avere un ordine che viene travolto nel processo creativo.
Come definiresti il tuo approccio tanto come curatrice quanto come autrice di testi critici?
Curare una mostra e scrivere un testo sono due questioni molto diverse per me. Quando scrivo sul lavoro di un artista devo essere interpellata dalle opere, dalla sua ricerca; capire la continuità nel tempo, poter rintracciare le argomentazioni concettuali. Ci deve essere per forza una ricerca artistica lungo il suo percorso che ti permetta di analizzare il corpo d’opera da cui parti e con cui lavorerai, oltre al fatto di confrontarti direttamente con l’artista in un dialogo di approfondimento, quando si tratta di artisti contemporanei. Comunque, ricordando Wittgenstein, non tutto può essere espresso a parole, e l’arte è uno di questi ambiti in cui c’è qualcosa, un eccesso, a cui non puoi accedere. Nei miei testi non tento mai di fornire una spiegazione sulle opere, sarebbe un tentativo impossibile. I lavori nascono dalla ricerca dell’artista, dalla concettualizzazione, ma oltre a questo dato di fatto, quando ti trovi di fronte a un’opera d’arte, succede qualcosa di cui non puoi parlare, qualcosa che trascende l’ambito di ciò che puoi dire o spiegare sul lavoro. In questo senso, preferisco scrivere testi che invitino lo spettatore a visitare una mostra, a osservare un lavoro, forse a soffermarsi in un dettaglio ma non pretendo mai di spiegare o attribuire un significato univoco.
E invece il lavoro di curatrice?
Curare una mostra è diverso perché in questo caso, attraverso la scelta delle opere e tutte le decisioni che comporta l’allestimento, cerco di creare uno scenario in cui la mia voce non interferisca con il lavoro dell’artista. Infatti, una volta che tutto è pronto per l’opening, la mia figura di curatrice deve quasi scomparire. Si deve potenziare il lavoro dell’artista lasciando lo spazio al suo progetto. Nel caso di “Mind Games” abbiamo pensato con Masegosa di riprodurre l’atmosfera dello studio dell’artista e quel work in progress che caratterizza la creazione finché l’opera non viene esposta al pubblico.
Per chiudere la nostra conversazione, vorrei chiederti quale definizione d’arte si addice più alla tua pratica professionale, al tuo approccio come critica e curatrice?
Direi l’arte come quella capace di porre domande, di incoraggiare il pensiero critico, di generare disagio e tensione. Sottolineare il lato oscuro dell’ovvio mi sembra fondamentale perché è proprio la sua irriverenza che la rende libera e potente. L’arte fa divenire in essere problematiche, domande, questioni spesso ignorate. Come ha segnalato Theodor Adorno, rimane evidente che niente è meno evidente che l’arte. Il concetto d’arte rimane quindi, per me, inafferrabile, qualcosa di sfuggevole che non puoi arrivare a comprendere di una volta e per sempre.
Il tuo prossimo progetto?
In questo momento lavoro alla mostra “Sinestesia Aguda” che si inaugurerà a dicembre nel Museo Nacional de Arte Decorativo. La rassegna è stata ideata come un’esperienza interattiva in cui diversi mezzi e linguaggi offrono allo spettatore la possibilità di sperimentare uno “stato sinestetico”. Al centro della proposta si troveranno i dipinti di Andrea Fried (Buenos Aires, 1972) a partire dai quali Nicolás Bernaudo (Buenos Aires, 1973), designer e scenografo, interverrà con suono e illuminazione.
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