Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. L’ottava puntata della nostra rubrica ha per protagonista Daniele Capra (qui le altre).
Come ti definiresti?
«Sul mio biglietto da visita c’è scritto critico d’arte e curatore indipendente, ma è solo per consuetudine professionale. Sono una persona che crede che le mostre, le opere e più in generale i processi culturali, se realmente significativi, siano dei dispositivi che accrescono i nostri strumenti d’interpretazione della realtà. La analizzano e problematizzano».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato nella palude culturale del Veneto di campagna, ma ho avuto la fortuna di avere una famiglia attenta, qualche buon maestro e tanti amici che mi hanno consentito di fare un passo in più. Lavoro nel triangolo tra Milano, Trieste e Bologna, che però spesso tradisco, soprattutto a nord ed est. Vivo in treno e in auto, ma il mio centro è Venezia».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Avrei voluto nascere in una grande città italiana o europea nel secondo dopoguerra, così da vivere a pieno la libertà degli anni Settanta. Non coltivo desideri di evasione, però vorrei lavorare più spesso a Parigi e nell’est Europa».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Alle superiori forse, quando capitava di marinare la scuola e passavo la mattina a Venezia a vedere i musei. E poi da studente universitario a Trento. L’esperienza del MART a Palazzo delle Albere e della Galleria Civica guidata da Cavallucci mi hanno fatto capire che non era un amore passeggero».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Non ho condotto studi accademici ed è stato un processo lento, nato da molti interessi contraddittori. Ho studiato economia politica, sono diplomato in pianoforte e ho coltivato infinite letture. Sono arrivato alla curatela dopo aver visto centinaia di mostre, dopo la scrittura e il giornalismo, grazie a delle persone che hanno visto in me qualità di cui non ero consapevole. Ho proceduto per sviste, zigzagando. Parafrasando Garutti, tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato lì».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?
«A brief history of Curating di Obrist, un raffinato campionario che illustra la complessità delle visioni e degli approcci dei curatori. Art Power di Groys per le riflessioni sistemiche sul contemporaneo. L’ideologia del traditore di Bonito Oliva, per la scrittura scintillante e barocca. E poi due libri che hanno a che fare con la pittura come L’invenzione del quadro di Stoichita e La pittura incarnata di Didi-Huberman, i quali mettono in guardia rispetto alla consapevolezza del dipingere».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Al di fuori dei testi specialisti Realismo capitalista di Fisher è stato per me importante, come pure l’Agamben di Che cos’è il contemporaneo, che è suo modo un manifesto di cos’è davvero l’arte. Ma in realtà trovo invece la narrativa una fonte inesauribile, perché spinge necessariamente a immaginare visivamente quello che non c’è con grandi margini. Auto da fé di Canetti è per me l’esempio delle distorsioni cui può arrivare un’attività intellettuale. Il soccombente di Bernhard è il racconto ossessivo della sfida che il caso pone alle nostre esistenze. E poi, essendo un appassionato di opera e musica classica, non posso non parlare di Bach, Mozart, Puccini, Stravinskij…».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Penso Trash, curata da Lea Vergine al MART, che mi ha fatto capire le potenzialità espressive ed eversive dello scarto. E poi Sound Art allo ZKM, una grandiosa mostra sul suono curata da Peter Weibel in cui c’era un’opera di Roberto Pugliese, esposta anche nella sua personale che avevo curato alla Galerie Mazzoli. Il catalogo è una vera e propria bibbia».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Forse il malinconico Ritratto di gentiluomo di Lorenzo Lotto delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, la prima opera che a vent’anni ho sentito appartenermi profondamente. Poi un’opera di James Turrell vista a Monaco, quando ero ancora adolescente. Hanno lavorato dentro di me per anni».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Sono molti. Agli artisti devo tanti pensieri e visioni. Driant Zeneli, Michele Spanghero, Jacopo Mazzonelli e Nebojša Despotović, che sono gli artisti con cui ho cominciato a esplorare/sperimentare l’attività di curatore. E poi Adrian Paci, Cesare Pietroiusti, Giovanni Morbin, Matteo Attruia, Nemanja Cvijanović, Marco Godinho, Tiziano Martini, Ludovico Bomben, Maurizio Donzelli, Enzo Cucchi, Giovanni Frangi, Linda Carrara e Igor Grubić, i cui pensieri e suggestioni mi hanno fatto fare un passo in più».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Vengo dalla pratica, dallo sporcarsi le mani con gli artisti e le opere alla ricerca del senso e delle relazioni possibili, in forma induttiva. Non mi sento figlio di qualcuno in particolare, ma ho imparato molto da Zdenka Badovinac, Adam Budak, Carolyn Christov-Bakargiev e Germano Celant».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«È stata fondamentale Non, presso la Galerie Alberta Pane a Parigi, con opere di Nemanja Cvijanović e Ivan Moudov, costruita come un preciso congegno a orologeria che attirava, ma metteva in dubbio le certezze del visitatore. Era un progetto sulla crisi, ideologica e politica, che è stato segnalato tra le cose da non perdere su Le Monde».
Qual è la tua definizione di curatore?
«È colei/colui che avverte le questioni poste dai processi culturali e dalle opere d’arte, e ordina quest’ultime in un costrutto significativo, intellegibile, possibilmente in grado di incidere sulla vita delle persone e sulla realtà».
Qual è la tua giornata tipo?
«Non ne ho. E, cosa molto problematica, per me non esiste una differenza tra lavoro e piacere».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Nessun rito. Una questione metodologica ricorrente però. Mi scrivo liste di parole e concetti che progressivamente affino lungo il percorso creativo di una mostra».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Nel lavoro cerco di programmare ampi spazi di possibilità. L’imprevisto è organico al fare arte, anche se talvolta, con gli artisti è difficile mantenere la calma».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Forse Libere tutte, progetto costruito sartorialmente per Casa Testori insieme a Giuseppe Frangi. È stata un mostra militante e necessaria di artiste, in cui abbiamo rimosso la parola donna e gli aggettivi riferiti alla sfera del femminile, scansando la retorica nascosta dietro l’angolo. E poi Under the boat, mostra del collettivo Beatrice von Babel, curata alla Fondazione Bevilacqua La Masa in un progetto con MARe/Museum of Recent Art Bucharest. È stato un progetto vitale ed estremo, basato sul continuo cambiamento dello spazio visivo grazie all’interazione di performer, danzatori e nuove opere».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Abbiamo curatori bravissimi come Chiara Parisi, Lorenzo Giusti e Gabi Scardi. O, tra i più giovani, stimo Saverio Verini e il duo Francesco Urbano Ragazzi. Però, come in letteratura, la critica è scomparsa. E invece servirebbe tantissimo. L’assenza di confronto è imbarazzante».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Ho troppi amori e nessuna stella polare».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Les Promesses du passé, curata da Cristine Macel al Centro Pompidou di Parigi, per il grande lavoro storico-critico, e poi Artempo, curata da Axel Vervoordt a Palazzo Fortuny a Venezia, che permetteva di ragionare sulla permanenza di alcuni approcci in artisti di tempi lontani».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Forse sono troppo disponibile. Ma di certo dovrei imparare a farmi pagare di più per il mio lavoro!».
Progetti in corso e prossimi?
«Ha appena inaugurato la personale di Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me, a Bologna presso le Collezioni Comunali d’Arte di Palazzo d’Accursio. Nei prossimi mesi ho in programma una collettiva dedicata al desiderio, che seguirò per la Galleria Giovanni Bonelli con Massimo Mattioli, la residenza Officina Malanotte per la cantina Bonotto Delle Tezze, una nuova edizione del laboratorio di pittura Extra Ordinario, realizzato insieme all’Atelier F dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e Vulcano, la personale di Giovanni Morbin presso la Fondazione Bevilacqua La Masa. E poi, insieme a Nico Covre, sto lavorando a un libro che ripercorre la storia di RAVE, il progetto di residenza in cui gli artisti vivono in un contesto di animali salvati dal macello».
Daniele Capra (1976) ha curato oltre cento mostre seguendo con particolare attenzione la giovane arte italiana e la scena concettuale dell’Est Europa. Ha collaborato con istituzioni quali MARe/Museum of Recent Art di Bucarest (RO), MART, Rovereto, Istituto Lituano di Cultura, Vilnius (LT), Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, MoMAD Museum of Modern Art di Dubrovnik (HR), Villa Manin a Codroipo, Reggia di Caserta, CAMeC della Spezia, Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, MMSU Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Rijeka (HR), Museo Bernareggi di Bergamo, Galleria d’Arte Moderna di Genova, Coneculta del Chiapas (MX), Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Udine, la Galleria Nazionale di Tirana (AL), la Fondazione Dena di Parigi (F), il Museo Civico di Bassano del Grappa, il Museo di Arte Moderna Ca’ Pesaro a Venezia, la Galleria Civica di Trento, il Comune di Milano, il Museo Janco Dada di Ein Hod – Haifa (IL) e Dolomiti Contemporanee.
Ha seguito molti progetti corporate ed è stato curatore del Premio Onufri presso la Galleria Nazionale di Tirana, del Premio Trieste Contemporanea. Ha tenuto lezioni sull’arte contemporanea per Fondazione Ca’ Foscari, la Wizo NB School of Design di Haifa, l’Accademia di Belle Arti di Venezia e di Verona, e presso numerosi corsi per curatori. È membro del comitato scientifico di Rave Residency e di Trieste Contemporanea.
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