Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La tredicesima puntata della nostra rubrica ha per protagonista Luca Cantore D’Amore.
Come ti definiresti?
«Odio la definizione di “critico d’arte” e, peggio ancora, quella di “curatore”. Quelle di “intellettuale” o di “esteta”, per me, poi, si collocano addirittura un gradino più in basso rispetto alle precedenti. L’unica tra le definizioni o etichette che mi piace, tra le astrazioni delle cose che non sono cose, è quella di “poeta” – sebbene neanche questa mi si addica. Essa non è meno indeterminata, vaporosa o sfuggente delle precedenti, beninteso, ma sicuramente è carica di un valore immateriale che contiene una delicatezza che, ai miei occhi, odora di umiltà, di profilo basso, di sobrietà: insomma, di tutti quegli ingredienti che credo servano oggi e che, spesso, dimentichiamo. Ritengo d’essere un uomo sensibile, niente di più. In questo tuttavia non vi è un merito, non vi è una eccezionalità: per questo non esiste un sostantivo chirurgicamente calzante per quelli che, come me, semplicemente, provano, prima di pensare, agire o parlare, ad adoperare la grazia e il gusto: affinché, banalmente, avvengano delle cose che siano semplicemente “belle”. Per citare Walt Whitman, in intreccio alle mie felici incongruenze interiori, mi piacerebbe che “moltitudine” possa essere una definizione calzante [“Ebbene sì, mi contraddico: poiché sono vasto e contengo moltitudini”, Walt Whitman]. Augurerei a chiunque di attraversare ponderate discordanze interiori affinché si affini non solo il pensiero critico, ma anche l’eterogeneità dei punti di vista. Del resto “Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla nemmeno io stesso” [Luigi Pirandello]».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato a Salerno, un luogo che per me è stato una palestra fino alla maggiore età, per via delle asimmetrie antipodiche che lo caratterizzano: oscillando perennemente tra paese e città, provincia e centro, mare e monti, dinamiche contadine e faccende metropolitane, meccanismi periferici e strutture cosmopolite, dinamiche di chiusura sociale e apertura al turismo – tutto questo, vive contemporaneamente. All’età di 18 anni, dopo le scuole, mi sono trasferito a Milano: all’epoca distante molto più che 800 chilometri, poiché più difficilmente raggiungibile. Meno consuetamente frequentata. Ma subito mi resi conto che sarebbe stata la Città del dopodomani. Io, simpaticamente, la definisco “Repubblica democratica di Milano”».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Benché abbia girato il mondo, provo una fierezza, una vanità, un senso di irripetibile e indescrivibile rarità nel sapere d’esser nato in Italia, e per alcune motivazioni, nello specifico al Sud. Non avrei potuto desiderare di meglio. Vorrei vivere, ciononostante, precisamente dove sono: a Milano, che mi sembra in questo momento – e da anni – la prua d’Europa. Un hic et nunch di rara configurabilità che, mi auguro, addirittura, un domani, se ne possa parlare rendendolo un caso studio. La vecchiaia, invece, non so perché, l’ho sempre immaginata stanca e serena [“Solo ora mi accorgo di aver desiderato una sola cosa, per tutta la vita: diventare vecchio”, Paolo Sorrentino]: credo, perciò, come ho scritto anche nel mio primo libro 6 anni fa [“L’estetica del decanter”] che Venezia sia una cripta dorata meravigliosa in cui terminare la propria Vita: avvolti da Bellezza, senso del Sogno e illusione d’Eternità, grazie allo stupore che in ogni angolo s’annida. Viceversa, in fine, parimenti, mi piacerebbe concludermi in un luogo primitivo, contadino, lontano dalle sofisticazioni umane: immagino Matera o, perché no, un borgo remoto come Craco o Roscigno Vecchia: luoghi senza ricchezze materiali, ma con un’anima che scalpita di “Dio” – anche per un ateo come me. In mezzo, credo, non vi sia, per me, niente da desiderare; o nulla che mi interessi. Sono perennemente sedotto dall’essenza esagerata delle cose: che sia in un senso o nel suo esatto opposto, per me, non conta».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«La prima volta che vidi un quadro di Munch. Nello specifico, due quadri. Il primo fu “Il bacio alla finestra” in blu [1892]: che mi commosse, conferendomi la pista d’atterraggio al sentimento amoroso come non mi era mai accaduto prima nella vita e ricordandomi una poesia di una potenza immane di Jacques Prevert “I ragazzi che si amano” [1951]. La seconda opera, sempre dell’artista di Oslo, fu “La danza della Vita” [1899]. Perché nella mia mente rappresentò un’immagine serena, piena di accettazione e quiete, di un’altra astrazione con cui sempre mi confronto: il tema della morte, inteso come punto di buio, di oblio, di irrevocabilità, di “non Esistenza”. Ne sentivo tutto il peso sin da bambino, quando credendo di essere bravo a disegnare. Mi chiudevo nella mia stanza e ascoltavo musica, producevo disegni, guardavo film e sentivo crescere in me una materia indecifrabile – forse malinconica, che tutt’oggi combatto – che andava, una volta assorbita, finalmente rilasciata».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Mai. Non l’ho mai deciso. Come in tutte le cose più belle della vita, la casualità delle meccaniche mi ha accompagnato nella definizione di questa traiettoria involontaria e fortunata. Spero di essere all’altezza di me stesso. E che la mia fortuna vada sempre di pari passo con il mio – ipotetico, illusiorio, probabile – talento [“Blow”, Ted Demme, 2001]. Fui chiamato da Luciano Crespi (direttore di architettura di interni del Politecnico di Milano) e da Leonardo Cascitelli, sofisticato pensatore dell’architettura, a insegnare ai ragazzi e da lì, tutto è cominciato. Rifarei ogni cosa, pur non sapendo come. Non ho mai avuto un libretto delle istruzioni. Quello del curatore è un lavoro liquido e imprevedibile. È un’altalena professionale».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale?
«Il mio primo affaccio dal balcone della Bellezza fatta pagine di libro fu grazie ad Alain De Botton: lessi “L’Arte come terapia” [2013]. Sono schizofrenico, oggi, nella lettura: mi interessa tutto. Passo – con una felicità quasi simpaticamente preoccupante – dal catalogo dell’IKEA a Dante con una facilità quasi patologica: nella certezza, però, che questa isteria intellettuale contribuisca, tutta, anche nelle sue contraddizioni, alla varietà di argomentazioni sul mondo e sugli esseri umani. Adopero e mi approccio ai flyer di salvataggio ed emergenza riposti dietro i sediolini degli aerei come fossero un libro di Joris-Karl Huysmans (“Controcorrente” del 1884 è il mio preferito) e viceversa: il minimo comune multiplo, il filo rosso, per me, nell’approccio alle due cose, pur così manifestamente differenti, è il metodo: ovvero la curiosità, abbinata allo spirito critico, sempre adoperato con ironia, attraverso cui guardo le cose. O, perlomeno, ci provo. La cultura è democrazia. Scegliere, dunque, è privarsi, essere monchi, amputarsi di alcune possibilità inaspettate».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Adoro Piergiorgio Odifreddi e tutto quanto di misterioso (non) esiste in ciò che gli esseri umani (non) concepiscono: l’infinito, l’universo, lo spazio, il tempo, la dimensione sono ciò che mi appassiona maggiormente e attraverso cui tento di districarmi: cercando di dare un senso all’inesauribile imperfezione del mondo. Amo Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini, Marcel Proust, Rainer Maria Rilke e tutti quelli che hanno rappresentato una rottura con la pace donando un verso alla poesia del mondo che assomigliasse a un tormento virtuoso e pieno di significati. Io li chiamo i “Fulminati”. Poiché se tra i cosiddetti “Illuminati” sono annoverati coloro che erano guidati e giungevano verso la Luce (Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leonardo, Vasari), i “Fulminati” (Van Gogh, Modigliani, Soutine, Bacon) hanno contribuito allo svolgimento della civiltà in maniera non inferiore. Ed è, non so perché, maggiormente in quelle piaghe lì che la mia ricerca avviene. [“Anche la parte sbagliata è una parte. E ci vuole coraggio a starci dentro”, Luca Doninelli su “L’estetica del decanter”]. Tra i contemporanei, invece, apprezzo moltissimo Vito Mancuso, per la sua sobrietà e, nello specifico dell’arte, Philippe Daverio – che è stato per me maestro e amico compianto – credo abbia raggiunto vette di comunicabilità e altezze non rintracciabili presto, in futuro, per nessuno. È stato un rivoluzionario: il primo a introdurre nella storia dell’arte una cosa che prima non esisteva, il sorriso».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Probabilmente non amo le mostre nel senso di “allestimenti” o di “esibizioni” canoniche del termine – per quanto queste siano indubbiamente arricchenti e accrescitive, tutte, indistintamente. Ho particolarmente apprezzato – tra le più recenti – Hieronymus Bosch, a Palazzo Reale. Ma mi piacciono, nel senso che le preferisco, le “mostre” in quanto “luoghi museali permanenti”, anche invariabili talvolta, che appartengono a loro stessi, con un carattere sempre proprio, distinto e riconoscibile, quasi, autoconclusivo. Per esempio, sovrastato dallo scintillio della esponenzialmente più famosa e frequentata Polignano a Mare, c’è un borgo che possiede un Castello meraviglioso: Conversano, con il suo Castello Conti Acquaviva D’Aragona (che spesso possiede non solo mostre cicliche ma anche tele – poche – imponenti e importanti, circa del Seicento, della collezione propria che ne delineano l’anima barocca, decandente e dimenticata). Ecco, un luogo del genere, per me, non è meno significativo e/o meno meritevole di memoria e/o di visita del Metropolitan Museum, del Guggenheim, delle Gallerie d’Italia o del Museo del ‘900. Per me hanno lo stesso valore, indiscutibilmente. Sono appassionato del carattere dei luoghi, provenendo dall’architettura. E il loro vestito mi interessa alla stessa guisa. Con il mio amico Davide Merlo, ricordo che un giorno andammo a vedere Emilio Vedova a Palazzo Reale e quello fu un bel momento, una bella sovrapposizione di anime tra estetica e amicizia. Mi segnò molto. Così come amai Paolo Ventura (amico che mi regalò la copertina per il mio primo libro) all’Armani Silos. Ma non solo per i contenuti artistici, quanto per – appunto – le storie nelle storie».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Mi innamorai perdutamente, da bambino, di Edward Hopper, di Jack Vettriano e di René Magritte. Per la loro estetica di sospensione narrativa. Sono, quelle composizioni, momenti, intercapedini, sciabolate di non provenienza e non direzione temporale: lasciando aperte le possibilità dell’immaginazione e della fantasia, per me – da sempre – le uniche strade verso la speranza. Mi piaceva il loro accatezzarti, il loro accompagnarti, dentro una storia – fatta di un attimo – ma solo fino a un certo punto. Per poi lasciarti vagare da solo nei sentieri erranti nella selva di te stesso, anche disorientato o spaesato, vagando negli angoli di te stesso senza una conclusione né precisa e né necessaria. Negli anni a venire, poi, questa caratteristica l’ho ritrovata in Carel Willink e, soprattutto, in David Hockney: che credo sia, da anni, il (non) cantore di (non) storie di cui sono più perdutamente innamorato».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Ho amato – e amo – fino alla follia, Giordano Floreancig. Personalmente, in lui, ritengo che si annidi il senso di sregolatezza (sia estetico che di modus cogitantis e vivendi) che sancisce la differenza tra “essere un artista” e “fare l’artista”. Giordano è un vulcano stanco che tuona di temporali furiosi e fulminanti e che schiaffeggia l’animo umano come pochi altri, per me. Trovo mostruosamente profondi: Marco Nereo Rotelli, con il suo linguaggio danzante e caoticamente armonioso che è metafora del tempo e della vita umana; Paolo Troilo, che ritraendo se stesso, ritrae tutti gli uomini e i loro volteggiamenti nella casualità dell’Universo; Marta Volonté, che rende sopportabile l’alienante disperazione delle nostre vite; Francesco De Molfetta, che ci fa sorseggiare con ironia la bevanda amara della quotidianità e della impazzita contemporaneità. Ultimo, non per importanza, Giotto Calendoli, che contamina le discipline artistiche, attraverso un senso di ironia e altezza molto fresco e giovanile con le proveniente estetiche più varie. Sono infiniti gli artisti contemporanei che amo e che seguo. Penso che l’arte sia piena di cose “note, non notevoli” e, fortunatamente, anche di cose “notevoli, purtroppo ancora non note”. Queste seconde, mi interessano tantissimo».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Con Philippe Daverio ho avuto un rapporto particolare e privilegiato. Era un gigante dell’anima. Un antropologo, un filantropo, un fumetto. Per me, Philippe, alle volte, quasi non esisteva. Ero incredulo dinanzi a lui, nonostante il nostro rapporto di amicizia e confidenza, tutte le volte: come lo si può essere dinanzi a Batman. E ha dato un metodo all’impaginazione delle pareti, sia della mia vita che della mia professione.
Vittorio Sgarbi, invece, mi ha permesso di capire, da dentro, il valore dell’uguaglianza e della non discriminazione tra le arti. Vittorio è un genio nel far comunicare l’incomunicabile. Nell’accostare i giganti e gli invisibili del panorama artistico universale. Attraverso lui e con lui, assorbendo, in silenzio, ho imparato la democrazia dell’estetica: un valore che richiede coraggio e spericolatezza».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«Con un progetto del Politecnico di Milano alla Biennale di Venezia. Si chiamava “Biennale Session”. Io ero uno studente come tutti gli altri, ma i miei professori vollero che me ne occupassi io. Avevo poco più di 20 anni e neanche la prima laurea. Per me fu un trampolino. Un’attività responsabilizzante enorme. Sentivo tutto il peso dell’incarico e lo portai a termine grazie all’incoscienza della giovinezza. L’anno successivo, me lo riassegnarono. Fu l’atto notarile dell’apprezzamento che ebbi. Fui molto orgoglioso».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Non ne sono, come dicevo, un sofisticato appassionato, dei curatori: definirei la maggior parte dei curatori, degli “impaginatori di pareti vuote”. Il curatore vero, come avviene nel restauro, ha funzionato bene, ha svolto bene la sua missione, quando non si vede. Quando è invisibile. Quando lascia parlare il metodo che ha adoperato, e cantare le opere che ha selezionato ed esposto, per lui. Ma, sia chiaro, la figura del curatore non può e non dovrebbe limitarsi a questo. L’attività espositiva, per un curatore, dovrebbe essere la naturale e virtuosa conseguenza di una miscellanea che porta dentro di sé. Quando questa c’è e viene fuori, il lavoro può diventare memorabile e meraviglioso. Viceversa, mi guarderei bene dall’accettarlo addirittura, un lavoro».
Qual è la tua giornata tipo?
«Non esiste una giornata tipo, per fortuna. È una miscellanea di eventi, contatti, manifestazioni, partecipazioni a conferenze, mostre e – perché no? – incontri di lavoro o cene di lavoro, più e meno formali. Essere libero professionista in questo ambito vuol dire non avere una routine e, spesso, non una fissa dimora. Un mio vecchio professore all’università diceva: “la storia dell’arte si studia con i piedi”. Non voleva intendere che si studiasse “male” ma, anzi, che andasse studiata percorrendola, camminandola, spostandosi e vagando: nell’inesauribile e costantemente sorprendente avventura della Bellezza. Essa, infatti, gode di un principio di incorruttibilità per cui, se non sei tu a raggiungerla, essa non viene da te. E questo genera movimento, storie da raccontare, sentieri da percorrere».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Mi piace, prima di iniziare una conferenza o inaugurare un qualsiasi evento o una qualsiasi mostra, intrattenermi con gli ospiti o con il pubblico. È lì, secondo me, che si annida, che si nasconde, la Verità. La crudezza. La commistione tra spettacolo e occhi che osservano. Tra godimento e stupore. Talvolta, ho inaugurato anche in ritardo pur di scambiare le ultime chiacchiere o fumare le ultime sigarette con gli ospiti, prima di cominciare. Questo perché parlo troppo e, purtroppo, ahimè, fumo troppe sigarette».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Sempre. Costantemente. E me ne compiaccio tutte le volte. “L’imprevisto è la sola speranza”, diceva Eugenio Montale. Io ritengo che sia la salvezza. Mantenere un solido equilibrio, per me, significa morire. Perderlo, invece, significa vivere un po’».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Sicuramente la direzione artistica della mostra personale di Giordano Floreancig, a Udine, nel marzo 2022, intitolata “Non sono io! Siete voi?”. Con catalogo, curatela e presentazione. In collaborazione con la Regione Friuli, Gianmarco Aimi (editorialista di “Rolling Stone”), Marco Viola (uno dei più geniali allestitori d’Italia) e Fabrizio Cigolot (assessore alla cultura del Comune di Udine).
Poi, probabilmente, l’aver assunto la direzione artistica della mostra personale del grande Kool Koor a Verona nell’aprile 2022, presso la galleria “Arena Studio d’Arte”. Stendendo i testi critici, catalogo, facendo consulenza per l’allestimento e rapporti con i media, curatela generale e conferenza di presentazione.
Sono molto fiero, inoltre, di quello che sta accadendo attorno a noi in Torre Galfa, a Milano, al 25° piano del bellissimo grattacielo con G.A.D. (Galleria d’Arte Domestica): è un format che dirigo e che sta avendo un successo di pubblico molto significativo. Gli amici e imprenditori Massimiliano Pianta e Domenico Galeotti, sono stati spericolati e vincitori nell’investirvi e inappuntabili nella gestione organizzativa e manageriale. Quel format mi rappresenta molto poiché fuoriesce completamente dalle impalcature dell’arte canonica e sperimenta, crea, osa, eccede. E, quindi, coinvolge e appassiona».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Ci sono dei colleghi molto bravi e preparati, che ambiscono all’estremo e tentano piccole o grandi rivoluzioni. Loro li ammiro tantissimo. Il resto, fortunatamente una minoranza, tenta ancora troppo di somigliare a schemi e vicissitudini passate, al solo scopo di non rischiare mai e svolgere il compitino. Questa categoria non mi interessa e, forse con colpa, cerco di ignorarla».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Oltre ai già citati Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, Giulio Carlo Argan per l’ampiezza e lo spessore del pensiero. Per la capacità chirurgica della scelta delle parole. Per la rotondità dei concetti espressi. Per la capacità contaminativa tra estetica, politica, sociale e narrativa. Ho amato l’ironia di Massimo Bontempelli in “Appassionata incompetenza” e la rivoluzionarietà di Walter Benjamin».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«”Il Museo della Follia” a cura di Vittorio Sgarbi. Non per migliorarla, ma perché sento che avrei imparato tanto: lui è un maestro degli inferi della mente».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«L’impazienza, sicuramente. Sono costantemente furioso e smanioso di portare subito tutto a termine e questo alza l’asticella delle aspettative di me stesso e la qualità del risultato, ma abbassa quella della serenità nei confronti di me stesso. Il mio immedesimarmi costantemente in chi gode del mio lavoro mi porta a richiedere sempre il meglio da me e in maniera rapida, senza scuse o alibi. Questo mi conduce a quello che è, certamente, il mio difetto più grande: inseguire la perfezione in un modo, spesso, stupido».
Progetti in corso e prossimi?
«Tra i tanti, sono molto orgoglioso della direzione della Fondazione Gatto, che mi ha reso tra i più giovani direttori di fondazione in Italia. Mi permette di accarezzare e portare avanti nel tempo un tema a me molto caro: la memoria e il disegnare il futuro attraverso “Invisibili percezioni”.
Ma le emozioni che vedo negli occhi degli spettatori in Torre Galfa per G.A.D., li ho visti raramente in altri progetti negli anni passati o in quelli che seguo anche adesso. Abbiamo cambiato un po’ di cose nel sistema e i risultati sono stati, per dirla con i miei difetti, rapidi e quadrati. Non dimenticando l’entusiasmo e la gioia festosa che, senza vergogna e dimenticare il contenuto culturale, l’arte può – e, forse, deve – essere. Chi mi accompagna in questo percorso è stato dotato di grande coraggio e spericolatezza.
Per il futuro prossimo e imminente sono grato di tutto quello che mi si prospetta. Le novità grandi, su tutte, sono due. Di una, per accordi di riservatezza, non posso ancora parlarne: sarà una vera e propria rivoluzione. Dell’altra se ne può parlare con una fierezza, finalmente, deflagrante nell’entusiasmo, poiché è la prima volta che ne parlo pubblicamente: stiamo per partire con “Il Prisma” di Stefano Carone, uno dei più importanti e prestigiosi studi d’architettura e progettazione d’Italia, con la prima residenza d’artista in Europa patrocinata da uno studio d’architettura. Sarà un’avventura entusiasmante, di grande spessore culturale, sociale e di grande partecipazione tra istituzioni pubbliche e private, enti e grandi player del settore. Avrò l’onore di essere accompagnato in questa nuova avventura risonante da professionisti di profilo elevatissimo e dalle menti brillanti che ho avuto il piacere di incontrare e con cui confrontarmi: da Davide Merlo, Tech Innovation Strategist Manager, a Giacomo Rozzo, Head of Innovation, passando per Amalia Martino, Marketing Manager. L’artista scelto, sarà comunicato a breve. Insomma, il futuro è da mordere!».
Luca Cantore D’Amore (Salerno, 1991) consegue tre corone d’alloro, in architettura d’interni e Interior Design al Politecnico di Milano, e in storia dell’arte. Si occupa di storia e critica dell’arte scrivendo articoli di giornale, testi per riviste di settore e collaborando con istituzioni, gallerie, fondazioni e musei.
È editorialista di magazine artistici di particolare rilevanza e attendibilità. Si muove liquidamente dentro e oltre la professione, spaziando tra i vari ambiti della cultura e della comunicazione, oltre che esprimendosi attraverso i media più differenti: dalla carta stampata alla radio, passando per la televisione e lezioni o conferenze universitarie, pubbliche e private.
Presenta, inaugura e cura mostre ed eventi in giro per l’Italia e non solo. Ha all’attivo un romanzo, “L’estetica del decanter”, e vari volumi, testi e cataloghi artistici – tra i più prestigiosi si segnala “Rinascenza, dolore e furore” edito da Giorgio Arnaldo Mondadori e “Non sono io? Siete voi!”, edito dalla Regione Friuli. È direttore artistico di “G.A.D.” (Galleria d’Arte Domestica), della Fondazione Bartolomeo Gatto, de “Il Prisma” per la verticale arte, di “Artland” per gli artisti Masters. Collabora con “Bimyou Communication”, è consulente per mostre e manifestazioni culturali di vario genere e natura, seguendo e curando un folto numero di artisti, dagli emergenti agli storicizzati.
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