Comincia oggi il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. A battezzare la nostra nuova rubrica è Marco Tonelli, che abbiamo raggiunto per questa intervista.
Come ti definiresti?
«Critico d’arte, docente d’accademia e direttore di museo, curatore nei momenti interstiziali».
Dove sei nato e dove vivi?
«Nato a Roma, vivo tra Pesaro e Venezia».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Nascere a Venezia e vivere a Londra… è dove morire che non saprei…».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Vedendo la piccola volta a mosaico del Sacello di San Zenone nella chiesa di Santa Prassede a Roma: tanta bellezza concentrata in così poco spazio, questo il mistero dell’arte da dover studiare».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Non l’ho mai deciso, per me è un’attività quasi obbligata, pragmatica, svolta con la mano sinistra, come diceva un grande regista cinematografico in merito al girare video, senza nulla togliere ovviamente al mestiere».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?
«Ricerche filosofiche di Wittgenstein per vedere le cose complesse in modo semplice, Nothing if not critical di Robert Hughes per mantenere alto lo sguardo e Art and Illusion di Ernst Gombrich per ricordarsi delle convenzioni estetiche e degli errori di prospettiva».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«La musica di Interstellar space di John Coltrane, La mente Nuova dell’Imperatore di Roger Penrose e A Clocwork Orange di Anthony Burgess (col relativo film di Stanley Kubrick)».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Francis Bacon al Museo Correr a Venezia nel 1993: ero impreparato a tanto “splendore dorato da bassifondi” e “ottimismo senza speranza” e, da allora, sono stato segnato, direi meglio sconcertato e ferito da una bellezza terribile e violenta».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Le serigrafie As Is When di Eduardo Paolozzi del 1964, una folgorazione intellettuale sulla via di Damasco: avrei fatto la tesi sull’artista dopo averlo incontrato più volte a Londra e letto tutto ciò che aveva scritto il filosofo Wittgenstein, a cui l’opera era dedicata».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Fabrizio Plessi fin dagli anni della specializzazione e il volterrano Mino Trafeli: dal primo ho imparato a pensare in grande, dal secondo a decostruire i miti».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Giovanni Carandente per la leggerezza del curare, Bruno Corà per l’energia e l’architetto David Palterer per la raffinatezza».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«Con la prima mostra personale di Giuseppe Stampone nella Pinacoteca Civica di Teramo e con la mostra collettiva, da me ideata, Pittori al muro alla Galleria L’Attico di Roma, entrambe del 2006».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Uno stare attraverso, tra scrittura, studio, pratica museale e spirito di mediazione, complice delle idee degli artisti».
Qual è la tua giornata tipo?
«Dipende dal giorno: lunedì Accademia di Venezia, martedì briefing a Pesaro con Vittorio Rubiu, mercoledì/giovedì/venerdì sopralluoghi e allestimenti a Palazzo Collicola a Spoleto, sabato e domenica in famiglia e/o studio e scrittura domestica».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Tenere sempre vicino a me almeno un paio di libri e toccarli, anche chiusi e, per quanto non necessariamente non utili al momento… è propiziatorio e rassicurante».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Le cose migliori sono quelle inattese, che ti sorprendono, impreviste appunto, che ti svegliano la notte, sempre che riesci a fissarle, perché il resto lo sai già».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Bill Viola. The Raft a Palazzo Te di Mantova nel 2013, il nuovo allestimento della Galleria d’Arte Moderna di Spoleto nel 2019 e la mostra Giuseppe Penone. Disegni a Palazzo Collicola nel 2021. Ma anche una serie di incontri tra parole e musica che ho curato nel castello di Montemiletto con Vinicio Capossela, Paolo Fresu e Danilo Rea nel 2018: un progetto “extra artistico”, però molto divertente».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Difficile, debole, tenue, da anni non vedo all’orizzonte nomi che possano stimolare come quelli di un Nicolas Bourriaud, un Hal Foster, un Daniel Birnbaum, uno Julian Stallabrass».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Vittorio Rubiu per quanto ha scritto su Pascali, Leo Steinberg per il sapere tra modernità e tradizione, Rosalind Krauss per la complessità del pensiero».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Sensation di Norman Rosenthal alla Royal Academy of Arts di Londra nel 1997: la vidi e fu realmente “sensazionale” ed è passata alla storia, nel bene o nel male».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Aver capito tardi che studio, scrittura e conoscenza sono solo una parte della professione, il resto essendo un (in)sano opportunismo, ossequio al potere, public relations spinte al limite e mancanza di indipendenza critica».
Progetti in corso e prossimi?
«Una monografia su Maurizio Mochetti, una pubblicazione sull’opera di Arcangelo Sassolino e, nel 2023, la chiusura, spero in gloria, dei lavori del Comitato Nazionale del Centenario di Giovanni Carandente, di cui sono segretario dal 2019».
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