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Focus curatori in 22 domande: intervista a Mattia Solari
Arte contemporanea
Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La sedicesima puntata della nostra rubrica ha per protagonista Mattia Solari.
Come ti definiresti?
«Realizzo mostre d’arte, le visito spesso, ci rifletto sopra. Mi piace collaborare con gli artisti e mi piace scrivere di arte. Perciò direi curatore che, per quanto oggi sia inflazionato come termine, racchiude (anche) tutti questi aspetti».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato e cresciuto a Verona e, al momento, risiedo a Treviso».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Concordo col motto che ogni epoca sogna la successiva, perciò vorrei nascere nel futuro. Quanto al luogo, mi interessano i contrasti e le contraddizioni che è possibile vedere con più chiarezza nelle metropoli, quindi direi una grande città».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Mi ha da sempre interessato in quanto espressione al contempo individuale e collettiva, perché l’arte, e la cultura in generale, ti avvicinano ad altri mondi e ti permettono di campionare sensibilità differenti, appaga una forma di curiosità».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Ho deciso di fare il curatore quando ho smesso di fare l’artista, la definirei una deriva neghentropica della mia carriera. Se da un lato non mi soddisfaceva più produrre opere d’arte, dall’altro permaneva il desiderio di farci qualcosa, di averle accanto, di vederle, di parlarci e di parlarne».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?
«Durante gli studi ero più interessato agli aspetti teorici, e imprescindibili sono stati (e sono) autori quali Rosalind Krauss, Arthur Danto, Hal Foster, Nicolas Bourriaud, fra i vari che ho incontrato. Successivamente mi sono orientato maggiormente verso narrativa e poesia, passando per autori diversi, da Giorgio Manganelli a Emilio Villa, da Wisława Szymborska a Edoardo Sanguineti, e poi Bolaño, Borges, e più di recente Olivia Laing e Vitaliano Trevisan».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Tutti quegli autori, che siano scrittori, pensatori, musicisti, architetti o creativi che impediscono al mondo di restringersi».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Il primo ricordo consapevole di una mostra che ho è la visita a “Dadaismo Dadaismi” a Palazzo Forti a Verona quando avevo dieci anni. Non so se fosse una mostra epocale, ma quelle opere mi colpirono immensamente; evidentemente non capivo cosa stavo osservando, ma credo che quello sia stato un momento germinale per la mia passione per l’arte».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Non saprei isolare la singola opera che mi ha avviato alla professione. Però penso che la lettura di Flash Art a cavallo fra superiori e università abbia contribuito a instradarmi verso questo percorso».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Sicuramente aver frequentato il corso di Alberto Garutti durante gli studi a Venezia ha profondamente influenzato e plasmato il mio approccio all’arte, la lettura delle opere, e la mia posizione come curatore con il suo approccio etico, poetico e critico. Parimenti cito Cesare Pietroiusti con cui ho collaborato per i workshop a Fondazione Lac O Lemon, per il suo approccio e la sua ricerca che hanno arricchito il mio sguardo sul fare e pensare l’arte».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«In una scala temporale, progressiva e non valoriale, metterei questi riferimenti indiretti: Eugenio Battisti, Germano Celant, John Berger, Okwui Enwezor, Anselm Franke, Pierre Bal-Blanc».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«Con il progetto sviluppato a termine del corso per curatori alla Fondazione Sandretto: “PIIGS. An Alternative Geography of Curating”. Assieme ai miei colleghi abbiamo sviluppato una piattaforma che portasse durante Artissima curatori da tutti quei Paesi che ricadevano nell’acronimo PIIGS per discutere della crisi economica e del ruolo dell’arte. Ne è uscita una mostra, una serie di conferenze e lecture e un catalogo».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Il curatore è quella figura intellettuale che crea, in uno spazio fisico o mentale, una distanza tra le opere e chi le osserva. Questo spazio è necessario per vedere dei manufatti eterogenei in prospettiva. Questa distanza è anche il filo che le lega e che diventa quindi una relazione tra di esse e l’osservatore. Per sostituire idee vaghe con immagini chiare, per citare lo slogan che appare in un film di Godard. Il curatore però è anche una figura tecnica, perché a volte fra burocrazia e allestimenti deve occuparsi di aspetti prettamente pratici per gran parte del tempo».
Qual è la tua giornata tipo?
«La mia giornata tipo, essendo un curatore in un’istituzione, Fondazione Imago Mundi, è fatta da una routine d’ufficio. Da un lato è un po’ ripetitiva e limitante, ma dall’altro permette quella cesura tra otium e negotium che è sempre più sbiadita nel mondo del lavoro».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«No, non consci almeno».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«L’inevitabile non accade mai, l’imprevedibile sempre, affermava Keynes. Perciò sì, c’è sempre un angolo per l’imprevisto nel mio lavoro e per la necessaria elasticità che ciò richiede».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Non so se è il più rappresentativo ma mi è piaciuto lavorare su “Italian Twist”, mostra collettiva dove ho potuto interagire con artisti più o meno coetanei attivi in Italia. Citerei anche un progetto che non ho concluso ancora: una ricerca storico-artistica sull’iconoclastia che indaga le azioni di creazione e distruzione delle opere d’arte, e che si addentra sulle logiche e i meccanismi che fanno funzionare le immagini e che ce le rendono attraenti o repulsive e che, in ultima analisi, ci rendono dipendenti da esse».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Ci sono buoni critici, ma il vero nodo è: come si inserisce la critica nel sistema dell’arte e in generale, nel mondo della cultura? A chi serve e per chi scrive il critico? È fuor di dubbio che non si può né lasciarla al sistema delle gallerie né solo a Luca Rossi. Perciò credo ci sia molto margine operativo per diffonderla, promuoverla e integrarla come uno strumento utile per la lettura del nostro tempo».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«La critica acritica di Celant, le analisi su museologia e curatela di Claire Bishop e Paul O’Neill, ma anche la cronachistica d’arte di Jerry Saltz. Aggiungo anche opere e posizioni di artisti, come l’intransigenza radicale, dallo scrivano Bartleby a Lee Lozano, la percezione dello spazio da Gregor Schneider a Henri Lefebvre, l’occultamento del lavoro di Franco Vaccari, le demistificazioni di Guy Debord, e le verità, mistiche e prosaiche, di Bruce Nauman».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Mi piacerebbe curare quelle che si definiscono gedanke ausstellung, le mostre di pensiero, come i progetti di ricerca portati avanti da Haus der Kulturen der Welt di Berlino o dal ZKM di Peter Weibel. Attualmente, anche alcune delle iniziative di Fondazione Prada mi sembra seguano questa linea».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Dal punto di vista pratico l’impossibilità di visitare gli studi degli artisti più di frequente, dal punto di vista teorico il poco tempo per approfondire i temi che trattano le opere che incontro».
Progetti in corso e prossimi?
«Attualmente, in Fondazione Imago Mundi è aperta fino a dicembre la mostra che ho curato “La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata”. In questi mesi ci stiamo occupando del programma pubblico che completa la mostra con una serie di incontri con giornalisti, curatori e attivisti. Stiamo poi lavorando anche alla mostra che inaugurerà l’anno prossimo poco prima della Biennale d’arte, ma di cui non posso dire molto altro».
Chi è Mattia Solari
Mattia Solari (Verona, 1987) è curatore e autore, vive e lavora a Treviso. Segue i progetti espositivi e gli incontri pubblici presso Fondazione Imago Mundi, dove ha curato diverse mostre per gli spazi di Gallerie delle Prigioni, fra cui La guerra è finita! La pace non è ancora iniziata (2023), Italian Twist (2021) e Poetic Boom Boom (2019) sulla poesia visiva, e per la Digital Kunsthalle sul sito web della Fondazione. Come curatore indipendente ha curato Kaluchua per Associazione Barriera, Torino e Treignac Projet, Treignac (FR) (2018-2019); PIIGS_An Alternative Geography of Curating, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2016). È autore di articoli e saggi comparsi su cataloghi e varie testate, fra cui Exibart, Flash Art, ATP Diary e Alfabeta.