Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La quindicesima puntata della nostra rubrica ha per protagonista Rossella Farinotti.
Come ti definiresti?
«Dal punto di vista lavorativo, o umano? Che, di fatto, sono diventate due realtà abbastanza inscindibili. Fino a qualche tempo, fa avrei detto di essere una critica d’arte – e cinema, poiché ho sempre scritto anche di quello e della sua relazione con le arti plastiche –, ora il lavoro di curatrice ha preso il sopravvento, per lo stretto rapporto con gli artisti e la mediazione con le istituzioni. La scrittura rimane sempre una parte viva e importante».
Dove sei nata e dove vivi?
«Sono nata e vivo a Milano».
Dove vorresti essere nata e dove vorresti vivere?
«Vorrei essere nata in qualche parte d’Europa. Anche Milano va benissimo, ho sempre amato la mia città. Persino ora che sta decisamente diventando un luogo scomodo, falso. Vorrei vivere in un Paese culturalmente più aperto. Ma è una riflessione molto recentedettata dall’età che cambia e fa mutare le prospettive, che sono sempre più pesanti, urgenti. Ho vissuto a Berlino quando facevo l’Accademia e, poi, a Chicago per diverso tempo. Ho viaggiato molto, girato, studiato in altri Paesi, ma torno sempre qui».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«L’arte come lavoro è diventata una strada quasi naturale intrapresa –senza progettazione – dopo i primi studi universitari in Lettere e filosofia. La mia famiglia si è sempre occupata di cultura. Mio papà è uno storico del cinema. Sono nata in quel contesto. Dopo l’Università Statale ho rincontrato una amica storica che un giorno mi ha portata a una mostra d’arte contemporanea (si trattava di una personale diMarzia Migliora da Lia Rumma, quando ancora la sede milanese era in via Solferino) e a una lezione di Garutti in accademia. Lì ho capito che c’era la possibilità di lavorare con artisti che vivevano nel mio stesso momento storico, producendo idee e lavori al di fuori di altri sistemi. L’interesse, invece, dell’arte come dialogo e analisi esistevagià da quando ero bambina: mia mamma ha iniziato a portare me e mia sorella Alice nei musei ancora piccolissime».
Quando hai deciso che avresti fatto la curatrice?
«Non è stata una decisione cosciente. É avvenuto un passaggio naturale e un po’ involontario mentre studiavo a Brera e lavoravo in una galleria. Chiesi al mio professore di museologia e storia dell’arte, lo storico e curatore Marco Meneguzzo, se potevo fargli da assistente. Mi rispose “Proviamoci. Vieni domani a Palazzo delle Stelline”. Iniziai con una mostra di Emilio Isgrò».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatrice?
«Che bella domanda. Sto facendo una cura per un problema all’udito: devo stare in una camera iperbarica ogni giorno per 90 minuti. Questo mi ha dato la possibilità di riprendere in mano dei testi che mi hanno un po’ formata. Filosofia, arte pubblica, tematiche che alterno a pensatori che hanno creato un contesto umano che mi è stato molto utile, come gli scrittori della mia vita (Pavese, Eco, Ginzburg, Deledda, Dostojevsky). Per l’arte, dagli scritti di Suzanne Lacy sull’arte urbana, alla pubblicazione di Alessandra Pioselli arte pubblica al, recentissimo in realtà, “Nonumento” di Pinotti. Ho anche ripreso Agamben e Hegel, grazie a un progetto che ho fatto con Maurizio Cattelan lo scorso maggio, che mi ha spinto a riprendere alcuni autori, anche cineasti. L’Accademia di Brera mi ha fornito importanti fonti legate al contemporaneo: dai classici Clement Greenberg, Rosalind Krauss, Arthur Danto, fino ai miei docenti come Francesco Poli o Giovanni Accame e, naturalmente, Meneguzzo – di cui segnalo “Il capitale ignorante” come recente riflessione ahimè lucida sul sistema culturale degli ultimi 20 anni – e molta filosofia, soprattutto grazie a Federico Ferrari. Naturalmente gli scritti degli artisti – da Mondrian a Kandinsky a Judd e colleghi, o ricercatori/ricercatrici più recenti, come Hito Steyerl – non possono non essere citati. Come si fa a non creare un “listone” come risposta a questa domanda?».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Alcuni degli autori che ho menzionato sopra, ma sempre ricercando – il termine “digger” mi viene sempre in mente in questi casi – anche in altri ambiti, tra cui il cinema naturalmente e, da sempre, le mostre. Non so se avrei intrapreso questo lavoro senza Fellini, Visconti, Jarmush, Cavani e Walt Disney. Visitare i musei, le gallerie e gli artistiin giro per l’Italia e il mondo, andare a tutte le mostre che potessero aggiungere qualche nozione o immaginario in più e che potessero essere in qualche modo raggiungibili, è sempre stata la molla principale e, credo, anche quella che ha costruito la parte più solida del percorso».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«È come chiedere il film preferito».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Non saprei. Forse un tardo Monet. O, forse, “l’asino” di Paola Pivi».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
Penso a Maurizio Cattelan con cui ho lavorato quando avevo 24 anni, o al dialogo con un personaggio come Theaster Gates. Artisti che mi hanno messo alla prova. Penso alle amiche artiste talentuose della mia generazione o più giovani con cui lavoro e condivido le giornate: con loro abbiamo attuato un percorso che ci ha portato a diverse collaborazioni formative. Come Emilio Isgrò e Thomas Berra: il primo mi ha iniziato al dialogo con gli artisti e alla messa in posa di un percorso curato di opere; con il secondo, della mia generazione, abbiamo sviluppato i primi progetti curatoriali con artisti giovani. Ettore Favini è un compagno di scambi e provocazioni, lui mi ha spinto su crocevia importanti».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Quelli citati prima tra i libri, la scuola e gli artisti».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatrice?
«Sono etichette in cui inizialmente non ti riesci a identificare, forse perché guardi gli altri prima di te con ammirazione e lontananza. Guardando indietro, riesco già a individuare progetti in cui ero giovane e inesperta che però già funzionavano. Sicuramente un progetto di arte pubblica che sviluppai per un quartiere di Milano, la zona Sarpi considerata Chinatown, e una collettiva a Palazzo delle Stelline, intorno al 2012–13. Ma già dall’accademia avevo realizzato diverse collaborazioni in gallerie e musei con singoli artisti. Oltre che grandi progetti come assistente di Meneguzzo. Penso a Gli anni ’80. Una prospettiva italiana (2009) presso la Villa Reale di Monza –quante cose ho imparato – e Scultura Italiana XXI secolo presso la Fondazione Pomodoro (2010), dove ho capito che il dialogo e la mediazione con gli artisti erano nelle mie corde più di altre azioni. E poi, come collaboratrice dell’assessore alla cultura per cui ho lavorato due anni al Comune di Milano, il progetto L.O.V.E. con Maurizio Cattelan mi ha forgiato tantissimo».
Qual è la tua definizione di curatore?
«É un mediatore tra le parti: un traduttore per l’artista utile a veicolare le proprie idee, a farle comprendere e formalizzarle. Naturalmente, gli aspetti sono tanti e complessi».
Qual è la tua giornata tipo?
«Considero un lusso avere la giornata tipo. Intendi quella ideale? In tal caso sarebbe svegliarsi con energia, magari fare lezione in università. Portare il mio cane, Felice, agli orti del quartiere dove abito, e poi lavorare su qualche progetto. Ancora non sono riuscita a trovare un equilibrio tra i tempi di lavoro e quelli di pausa. La mia giornata tipo si svolge attraverso sempre troppe cose. Mi divido tra le lezioni del mio corso in Cattolica e quelle NABA, l’Archivio Gio’ Pomodoro per cui lavoro dal 2016 e le lunghe telefonate con Bruto Pomodoro, gli artisti e i progetti del momento. E, poi, la vita privata, che si deve “sorbire” però gli artisti e le persone con cui lavoro. Il mio compagno è la “vittima” sacrificale. Ma gli piace il mio lavoro (così mi fa credere)».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«Per la scrittura ho un modo operativo che è sempre lo stesso, dunque ormai lo considero un rito».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Per forza. Soprattutto per i progetti collettivi. Ma si cerca sempre di tenerlo sotto controllo. In questo modo l’imprevisto può diventare un punto di forza».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Credo che 3 dei progetti che ho sviluppato negli ultimi due anni siano indicativi per l’approccio che chiami scientifico, del mettere insieme un percorso di mostra definito, puntellato da elementi giusti e da un pregresso analitico preciso. Penso alla collettiva How far should we go? presso Fondazione ICA a Milano; al progetto Stupida come una bionda – con Ettore Favini, Marta Pierobon e Valentina Rossi – e alla grande impresa di creare e dirigere la Cremona Art-Week con un team perfetto».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Forse gli autori e i libri che ho citato inizialmente in questa complessa intervista sono indicativi: dalla generazione prima della mia in poi non c’é stato molto spazio per la critica, bensì per le recensioni, le cose buone da dire, ecc. Io stessa ormai scrivo poco, non per mia volontà ma per la mancanza di supporti e riviste che facciano selezione. Certo, ci sono alcuni casi che stanno rispuntando positivi. Ma vediamo cosa accadrà, sono un po’ scettica».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Il “listone” sopra citato contiene diversi riferimenti critici importanti».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Le prime mostre di Fondazione Nicola Trussardi curate da Massimiliano Gioni. Se chiudo gli occhi penso al progetto di Paola Pivi, My Religion Is Kindness. Thank You, See You In The Future(2006) e a quello di Pipilotti Rist al cinema Manzoni, PARASIMPATICO (2011). Non sarebbe stato male realizzarle. Oppure aver curato azioni come How to Explain Pictures to a Dead Hare di Beuys nel 1965. Ecco, ne ho pensate troppe».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Come ti ho risposto dall’inizio non riesco molto a scindere tra l’umano e il non umano, ovvero tra la vita professionale e quella quotidiana familiare. Dunque, l’essere troppo coinvolta è sicuramente un grande limite».
Progetti in corso e prossimi?
«Stupida come una bionda avrà luce in due sedi museali nel 2024 e, dopo anni di lavoro, a fine 2023 uscirà il Catalogo ragionato di Gio’ Pomodoro».
Chi è Rossella Farinotti
Rossella Farinotti è critica d’arte contemporanea e di cinema, curatrice e giornalista. Scrive per magazine e riviste di settore come “Zero”, “Mymovies”, “Exibart”, “Flash Art Italia”. É direttore esecutivo dell’archivio Gio’ Pomodoro (Milano) dal 2016; consulente curatoriale per Sergio Rossi The Magic Kingdom e per Canali; direttore artistico dei progetti d’arte contemporanea della Cittadella degli Archivi di Milano; docente del corso triennale Promozione per l’arte e la cultura e dei master in Art Market e Marketing in the Arts presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, e di History of Cinema presso la NABA di Milano. Nel 2013 pubblica Il Quadro che visse due volte, sulla relazione tra arte e cinema. Dal 2008 al 2010 è stata assistente dell’assessore alla cultura di Milano, dove ha lavorato con artisti come Maurizio Cattelan, Shirin Neshat, Tony Ousler, Mimmo Paladino, per citarne alcuni. Negli ultimi anni ha curato mostre di artisti della sua generazione; lavorato per diverse istituzioni private e pubbliche e tiene workshop e lezioni presso la NABA di Milano, l’Accademia Albertina di Torino e la Ca’ Foscari di Venezia, sulle tematiche di relazione tra arte e impresa, o laboratori di scrittura critica. Ha una laurea in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università Statale di Milano e il diploma di specializzazione in Comunicazione e Organizzazione dell’Arte contemporanea presso l’Accademia di Brera.
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