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Focus curatori in 22 domande: intervista a Valentino Catricalà
Arte contemporanea
Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La settima puntata della nostra rubrica ha per protagonista Valentino Catricalà (qui le altre).
Come ti definiresti?
«Ah, bella domanda! Mi definirei un appassionato e determinato. Che poi è la stessa cosa, la passione è spesso determinazione».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato a Roma. Oggi vivo tra Roma, dove ho la mia famiglia, Manchester e Milano, dove invece lavoro…un bel casino!».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Nato sicuramente Roma, una città che può dare delle cose uniche che ti formano nel profondo dell’anima. Magari gli studi li avrei fatti più all’estero. Non ho mai amato particolarmente città come Londra e New York, città che ho frequentato molto e che rispetto per le loro capacità uniche di far girare economie pazzesche che possono veramente dare molto a noi curatori ma che, allo stesso tempo, ti fanno pagare cara questo barlume di speranza. Penso che la dimensione migliore siano queste nuove tipologie di città che si stanno creando piccole e dinamiche, vedi Milano e Manchester per esempio».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Io arrivo all’arte dal cinema. Ero un grande appassionato di cinema e piano piano ho iniziato ad appassionarmi all’arte, inizialmente mischiando un po’ le due cose e poi comprendendone le differenze. Inoltre, i miei genitori sono sempre stati appassionati e hanno sempre stimolato i miei interessi con gite culturali nelle capitali rinascimentali, medievali, cercando sempre di farmi comprendere il valore culturale di ciò che ci circonda, da lì a ciò che faccio oggi, il passo è stato breve».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Io non vengo da scuole per curatori, da corsi specializzati, da fondazioni specifiche e così via. Cosa che ha determinato anche la difficoltà iniziale nel trovare spazi di lavoro per cui ho lottato molto. Il mio è sempre stato un approccio di ricerca, anche universitaria, che trova nella curatela uno sbocco, una coerenza di pensiero e di azione. Non seguire dunque le ultime mode, piuttosto promuovere un pensiero una visione che sia la mia. Questa penso che sia stata la mia forza. Perciò mi è difficile dire quando ho iniziato, potrei dirti da quando mi sono appassionato di arte, da quando ho iniziato a studiare e a esprimere il mio pensiero attraverso scritti, frasi e, dopo, con mostre e progetti».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?
«Penso che leggere e scrivere sia fondamentale ancora oggi. Se vogliamo capire il lavoro degli artisti non si può leggere solo di arte, ma seguire il lavoro degli artisti attraverso ciò che li ha ispirati. Trovo molto interessanti libri come Entangled Life di Marlin Sheldrake o Iperobject di Timothy Morton. Ma ovviamente fondamentali per il mio percorso sono alcuni classici che ho letto e riletto come i libri di Aby Warburg o Gombrich; classici della filosofia come Deleuze, Faucault, Guattari, Heidegger e senza dubbio, Benjamin; importanti anche i libri sul cinema e i media come quelli di McLuhan, René Berger, Krakauer. Ci sono poi personalità che ho conosciuto in seguito e con cui ho collaborato molto importanti, come Sean Cubitt (con cui ho appena curato una edizione speciale della rivista VCS), Oliver Grau, Lev Manovich (di cui ho curato l’edizione italiana di un suo libro)».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Sicuramente film…film, film, film. Ho sempre guardato tantissimi film e ne guardo ancora molti. Di tutti i tipi, dai film di Yoshiro Ozu degli anni venti a Terminator. Sono sicuramente un animale cinematografico. E poi musica, molto varia dal punk anni ottanta dei Dead Kennedys o Black Flag, da De André o al nuovo cantautorato, fino al jazz e tanta classica. Amo molto il teatro ma non ho mai veramente tempo di approfondirlo come mi piacerebbe».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Ci sono delle cose che ti affascinano quando sei giovane, ti formano e ti indirizzano in un percorso. E spesso mi chiedo come sarebbe se le riguardassi ora, forse le considererei molto minori, chissà. Sicuramente, quando ero un giovane studente, la mostra Future Cinema presso lo ZKM è stata una di quelle che mi ha influenzato di più. Lì veramente capii che potevo unire la mia passione per il cinema con quella per l’arte, che c’era un mondo dietro il concetto di cinema e dietro un utilizzo artistico per le tecnologie».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«Credo che l’opera che mi abbia veramente instradato verso una passione nei riguardi della cultura sia un film, Otto e mezzo di Federico Fellini. Lo so, non è un’opera d’arte, ma vidi quel film molto giovane e immediatamente capii che volevo lavorare nel mondo della cultura. Da lì inizia a vedere di tutto, film, romanzi, musica, e anche arti visive, andando a tantissime mostre dal rinascimento al contemporaneo. Ricordo ancora quando visiati Madrid da giovane, tutte le sere entravo nella mezz’ora gratis prima della chiusura solo per ammirare sempre e solo lo stesso quadro: Las Meninas».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Ero un grande viaggiatore, viaggiavo continuamente per andare a quella mostra o a quell’opening, o festival. E, inizialmente, ero molto affascinato dai maestri. Antoni Muntadas è stato uno di questi, alla fine del nostro primo incontro mi disse una frase che mi rimase impressa per tutta la vita, mi mise una mano sulla spalla e disse: “Ci sono due tipi di curatori Valentino, quelli di cui ti puoi fidare e quelli di cui non ti puoi fidare: di te ci si può fidare”. Ero felicissimo! Poi artisti come Antoni Abad, un genio che ha fatto mostre nei contesti più importanti al mondo e che meriterebbe maggiore riconoscimento, con lui c’è stata una grande amicizia. Dara Birnbaum, con la quale stiamo lavorando a un grande progetto, ho imparato moltissimo dai nostri incontri. Artisti che ho conosciuto una volta sola il cui lavoro è stato per me fondamentale come Woody e Steina Vasulka. E poi i dialoghi con Ed Atkins, Cecile B Evans, Hito Steyerl, e così via. Ci sono stati molti artisti con cui poi ho sviluppato vere e proprie amicizie, con i quali ho condiviso tante belle esperienze formative, Donato Piccolo, Quayola, Daniele Puppi, i Masbedo, e molti altri».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Barbara London, un nome mitologico quando studiavo, colei che ha fondato e diretto il Dipartimento videoarte del MoMA. Con lei sto lavorando molto, ho capito moltissimo di cosa vuol dire curare. Peter Weibel, storico direttore dello ZKM, per me maestro diretto (abbiamo curato un catalogo insieme) e indiretto, il periodo di studio allo ZKM è stato per me fondamentale.
In Italia Marco Maria Gazzano, nome ormai poco conosciuto, purtroppo da poco venuto a mancare. Uno dei pionieri della videoarte in Italia (come le sue grandi mostre su Nam June Paik e I Vasulka al Palazzo delle Esposizioni negli anni novanta), con lui ho fatto il dottorato, imparando soprattutto il rapporto tra ricerca e curatela, un rapporto che penso oggi debba essere ripreso. Bruno Corà con il quale ho lavorato per mostre al Museo Riso a Palermo. Ancora oggi dialoghiamo».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«Sicuramente il Media Art Festival. Avevo appena finito il mio dottorato e dovevo trovare modi per sopravvivere. Mi ero reso conto che in Italia la cultura intorno ai rapporti tra arte e tecnologia non era molto sviluppata, così fondai il Media Art Festival, possibile solo grazie al sostegno della Fondazione Mondo Digitale che ha veramente creduto nel progetto. Mi viene da ridere se ripenso alla prima edizione, piccola, con budget di produzione minimo. Quell’edizione ha fatto esplodere tutto, l’anno dopo eravamo al MAXXI, con sponsor come BNL, Samsung, Google. La seconda fu una edizione pazzesca che mi permise di iniziare tutta la mia attività. E pensare che la prima edizione è stata nel 2015… non tanto tempo fa!!».
Qual è la tua definizione di curatore?
«La figura del curatore è una figura amorfa, che cambia in base alle epoche e alle necessità. Se si guarda alle mostre negli anni sessanta o settanta, non si trovava mai “a cura di”, si trovava “organizzata da” o “con testo di”. Dalla fine degli anni settanta si inizia ad avere bisogno di una figura di mediazione fra diversi settori. Il curatore doveva essere un mediatore tra il mondo della cultura e quello del marketing, un intellettuale, uno studioso, un lecturer, ma anche uno che sa fare found raising, sa parlare con la politica, e anche uno psicologo (per gli artisti!). Ciò che sta accadendo oggi, a mio avviso, è che il curatore è sempre più vicino a una figura imprenditoriale e di marketing. Non è un caso che questo termine in alcuni contesti sia sostituito da quello di “creative producer”, dal curator al producer. Così però si perde una parte fondamentale racchiusa nei due termini sopramenzionati, quello dello studio e della ricerca, della scrittura come atto politico e di interpretazione».
Qual è la tua giornata tipo?
«Guarda in questo momento sto vivendo tra Roma, Milano e Manchester. Tutte le settimane tocco tutte e tre le città…ti lascio immaginare!!».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«No, nulla di particolare».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Penso che non ci sia vita senza imprevisto, quindi l’imprevisto è ciò rende possibile qualsiasi progetto, sento che il mio lavoro è spesso un tentativo di orientare positivamente l’imprevisto».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Da un punto di vista di affezione direi la terza edizione del Media Art Festival. Il curatore non cura solo mostre, ma crea progetti innovativi e visionari. Quella edizione è stata questo per me. Abbastanza matura la mostra (con grandi nomi come Gary Hill, Sigalit Landau, Vasulka, ecc.), ma intorno tutto ciò che un format flessibile come il Festival permette, dei bellissimi progetti di Hackaton, grandi lectures, ospiti internazionali di alto spessore, progetti con le scuole…
Da un punto di vista curatoriale quella appena curata a Manchester, una mostra che sognavo da anni. Un tema forte come il concetto di Game Engine Culture, e nomi di artisti che amo molto».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Critico o curatoriale? Non sempre le due cose si intersecano. Penso comunque che in Italia abbiamo una grandissima tradizione critica, e che oggi abbiamo ancora ottimi critici. Non si riesce però più ad avere quell’impatto che la critica aveva una volta. Piuttosto, quell’impatto mi sembra sia più nella filosofia che parla di arte. Pensiamo alla nuova ondata di filosofi molto attivi. Su questi argomenti stiamo lavorando con lo IULM di Milano».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Barbara London, una studiosa, ricercatrice, che ha fondato un dipartimento, che all’epoca sembrava assurdo, quello di videoarte in uno dei musei più importanti al mondo, il MoMA. Facendo entrare gli artisti che poi hanno fatto la storia, Nam June Paik, Dara Birnbaum, ecc. Ancora una volta l’importanza della ricerca e di non seguire solo gli artisti che vanno di moda».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Ce ne potrebbero essere molte, penso a curatori che stimo come Andrea Lissoni, Emma Enderby, Michelle Kuo, e spesso penso, ah! Perché non l’ho fatta io!».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«Sono troppo disponibile e faccio molta fatica a dire di no…ma sto imparando».
Progetti in corso e prossimi?
«Abbiamo un programma bellissimo a Manchester, con la personale di una delle pioniere del CGI come Rebecca Allen, ai progetti con Cecile B. Evans, Jonas Lund, Hito Steyerl, fra gli altri, e a tutti gli altri progetti che stiamo sviluppando con Serpentine Gallery, FACT, NABI Art Center, ecc. Con Fondazione Prada stiamo lavorando alla grande mostra europea di Dara Birnbaum che da Milano andrà a Tokyo e poi a Manchester. E poi tanti progetti editoriali con Jerome Sans, Sean Cubitt e molti altri. E tante uscite su belle riviste d’arte. Un nuovo libro…spero».
Chi è Valentino Catricalà
Studioso, curatore d’arte contemporanea. Attualmente è curatore della MODAL Gallery alla SODA-School of Digital Art di Manchester e lecturer presso la Mancheter Metropolitan University. È responsabile dell’aerea digitale de La Quadriennale di Roma e co-curatore, insieme a Barbara London (MoMA), del progetto D’ORO/D’ART in collaborazione con D’ORO Collection e Marian Goodman Gallery.
Ha curato mostre in importanti musei e istituzioni internazionali fra i quali: Minnesota Street Project (San Francisco), Ermitage (San Pietroburgo), National Art Club (New York), Palazzo delle Esposizioni (Roma), MAXXI (Roma), Museo Riso (Palermo), Media Center (New York), Stelline (Milano), Istituto Italiano di Cultura Nuova Dheli (India), Manchester Metropolitan University (UK), Ca’ Foscari (Venezia), Centrale Idrodinamica (Trieste), Museo Centrale Montemartini (Roma).
È autore di diversi libri, fra i quali libri The Artist as Inventor (Rowman & Littlefield, Londra 2021). È stato, inoltre, co-autore insieme a Cesare Biasini Selvaggi di “Art and Technology In The Third Millennium. Landscapes and Protagonists” (Electa, 2020), per i tipi de I Quaderni della Farnesina.