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Frammenti poetici di corpi politici, per sette artisti: la mostra ad Ascoli Piceno
Arte contemporanea
Ricostruire una nuova topografia del corpo è un certo paradigma che emerge nella narrazione artistica collettiva. Diverse sono le interpretazioni che si possono dare al nostro rapporto (ben specifico) con la dimensione della corporeità. Tattile e materiale, distante e digitale, anatomico e armonico o decostruito e disarmonico. Una profondissima crasi che convoglia in sé tutte le differenti istanze e le prospettive in uno spazio stretto e limitato. Fondamentalmente, due sono i lembi entro i quali le differenti costruzioni si articolano: il corpo biopolitico – il bios – foucaultiano e il corpo postumano – ibrido ed eterogeneo – degli studi di Braidotti, Haraway, Butler (solo per fare alcuni nomi).
Nel caso della mostra Sillabazione, organizzata per la terza edizione del Premio Sparti e curata da Giuliana Benassi, il corpo appare sotto una prospettiva pressoché inedita. Infatti, gli spazi del Museo Civico d’Arte Moderna e Contemporanea Osvaldo Licini di Ascoli Piceno ospitano, dall’11 maggio all’11 giugno, presenze perturbanti che, attraverso le opere di sette artisti (Elena Bellantoni, Tatiana Brodatch, Martin Creed, Aneta Grzeszykowska, Giuseppe Pietroniro, Calixto Ramírez e Gabriele Silli) si configurano come uno spartito in cui il corpo viene scandito armonicamente nelle sue parti anatomiche. Nell’accostamento tra queste pratiche difformi, il corpo appare osservato e analizzato da punti di vista sempre eterodossi e – alle volte – persino contrastanti.
«Questo mondo irreale, questa realtà troppo reale, diffonde un senso di indecidibilità totale: nessuno sembra più in grado di rispondere alla domanda su che cosa faccia parte o meno del mondo reale. E in una società accecata che ha perso il contatto con il reale, e che soprattutto ha smarrito nell’oceano di immagini, in cui tutti navighiamo, la capacità di vedere, eccolo lì il corpo… il corpo dell’arte». In questo modo Francesca Alfano Miglietti, all’interno della mostra Corpus Domini (Marsilio Editore, 2021) – che, di fatto, costituisce un precedente imprescindibile alla riflessione sul corpo, per quanto non completamente riuscito e con molte problematiche –, mostra questa distanza incolmabile tra realtà, corpo e rappresentazione. In Sillabazione, l’esito è quanto mai certo: una scomposizione mediata, che riesce ad arrivare nella sua complessità allo spettatore grazie all’insistenza – in alcun modo didascalica – su quelle dimensioni della corporeità che appaiono sopite o negate. Il disgusto, il dolore, il trauma dell’esistenza producono effetti più o meno percepibili sul corpo, che si deforma di conseguenza per adattarsi ad un modello produttivo imperante.
Un tema che resta, inevitabilmente, aperto. Non può in alcun modo essere conchiuso e limitato ad una rappresentazione diretta. Ciascun artista possiede la facoltà di costruire un intero universo che la curatrice ha intelligentemente associato e raccordato. È la ricchezza della topografia del corpo che costruisce una musicalità propria. Nel dialogo con la curatrice e docente all’Accademia di Roma Giuliana Benassi, ripercorriamo la prospettiva critica sottesa all’esposizione.
Una prima domanda piuttosto di rito. L’edizione del 2024 del Premio Sparti è, per l’appunto, incentrata sulla corporeità. Quale è la traccia che, in quanto curatrice, hai voluto far emergere all’interno della manifestazione e che lega tutte le esperienze del Premio?
«Il Premio Sparti, ogni anno, mette al centro un tema ben specifico. Questa edizione, che mi ha visto coinvolta, ha al centro il corpo inteso come fisicità, carnalità, matericità, animalità, mortalità. Il titolo che abbraccia tutte le mostre, Tra corpi animali e corpi celesti, allude alle dinamiche interne della materia, in un passaggio dal microscopico al macroscopico. La lettura del corpo è stata volutamente lasciata aperta per stimolare una riflessione a posteriori, soprattutto attraverso le opere dei giovani artisti del Premio che, per l’occasione, hanno presentato lavori nuovi e inediti. Invece, in Sillabazione, sono confluiti artisti e opere di diversi linguaggi e percorsi per costruire una costellazione dove il corpo emerge descrivendo sé stesso in senso viscerale e carnale».
Sillabazione, che hai curato in occasione della terza edizione del Premio Sparti, indaga una dimensione quanto mai contemporanea: la corporeità intesa come armonia e disarmonia delle sue parti. Un tema, di per sé, copiosamente affrontato nel corso della storia dell’arte. Tuttavia, nella tua ricerca emergono quelle istanze della contemporaneità che, a parer mio, appaiono ancora inesplorate: il rapporto tra il corpo e la sua immagine – o la sua rappresentazione; la sua costruzione topografica e la sua proiezione topologica. Il corpo è, infatti, quello specifico oggetto attraverso cui entriamo propriamente nella realtà e la filtriamo. Quale configurazione del corpo la mostra ci vuole proporre?
«La mostra nasce da una poesia di Antonin Artaud, dove, in un certo senso, lancia un allarme: il corpo non deve essere usato come filtro; bisogna mappare ogni contaminazione con la realtà. In particolare, nei versi di Artaud (in J’étais vivant, 1948):
Bisogna essere casti per sapere non mangiare
aprire la bocca significa offrirsi ai miasmi
allora, niente bocca!
Niente bocca
niente lingua
niente denti
niente laringe
niente esofago
niente stomaco
niente ventre
niente ano
io ricostruirò
l’uomo che sono.
Mi sembrava descrittivo più di qualsiasi altro testo. La riflessione sul corpo è completamente ribaltata, la sua ripartizione è la celebrazione di una ricostruzione. Chiarisco subito che qui parliamo di una ipotetica figura retorica chimerica che vuole esprimersi attraverso il corpo, diviso o cadenzato in sillabe. Dotato di una certa sonorità poetica, interrogato in quanto spazio di esistenza, al di là del discorso sui generi, tratta di un corpo carnale, animale. Entra in circolo un pensiero sul corpo nella sua dimensione organica-disorganica. Talvolta, ponendo l’accento sulla vitalità delle singole parti. Talvolta, esacerbando la sua decomposizione. Nel mettere insieme i lavori degli artisti – Elena Bellantoni, Tatiana Brodatch, Martin Creed, Aneta Grzeszykowska, Giuseppe Pietroniro, Calixto Ramírez e Gabriele Silli – soggiace la volontà di leggere il corpo come partitura, per scaturire una riflessione sulla presunta autonomia delle sue parti, sui resti e le assenze: estetica di una frammentazione, tentativo di dispersione.
Per esemplificare, la metafora del corpo come partitura diventa letterale nella serie fotografica di Calixto Ramírez, Concierto a 280 manos: su grandi pentagrammi le mani dell’artista imprimono una sinfonia inesistente attraverso una gestualità tanto espressiva, quanto casuale. Gli arti sono perciò utilizzati come linguaggio misterioso e si concedono alla lettura di musicisti che, durante l’apertura della mostra, sono stati impegnati ad interpretare gli spartiti la cui lettura è del tutto soggettiva. Queste opere dialogano con la serie Armed body di Elena Bellantoni dove il corpo dell’artista si misura con le armi, mettendo in evidenza la fragilità del corpo».
Ricercando una certa anatomia del corpo, l’esposizione sembra agire in un duplice senso: innanzitutto, parcellizza il corpo, lo scompone nei suoi elementi essenziali per poi ricostruirlo e riorganizzarlo in forme nuove e inedite. Jean-Luc Nancy, all’interno de Il corpo dell’arte (Mimesis, 2014), ci permette di capire come questa operazione costruisca una rappresentazione del corpo profondamente psicologica, per cui il soggetto sceglie come rappresentarsi nel rapportarsi all’immagine archetipica di un corpo ideale. Come e in che modo il confronto tra rappresentazione del corpo e il corpo interagiscono nelle opere degli artisti esposti?
«La rappresentazione del corpo e il corpo si muovono tra l’immagine del corpo e la materia. Nella rappresentazione è messa in evidenza una sineddoche, la parte per il tutto. Nella ricerca sulla materia, invece, esiste un richiamo alla decomposizione organica. Il corpo in entrambe le forme è pensato frammentato e, dopotutto, la frammentazione è il caos. Questa, in fondo, è una possibile metafora del contemporaneo: “Forse ci troviamo in una fase in cui le antiche storie che coglievano il senso del mondo stanno crollando, e in questo momento, prima che emerga un nuovo grande racconto, una massa di trilioni e trilioni di frammenti senza significato precipita nel vuoto, e per un breve periodo storico siamo immersi in un mondo che non ha nessun senso. Fino a quando, in un luogo che non possiamo ancora immaginare, qualcuno inizierà a riassemblare tutti quei frammenti in un modo completamente nuovo, da cui prenderà vita una grande storia”. Per riprendere Adam Curtis.
Le opere di Aneta Grzeszykowska riflettono, ad esempio, sul corpo e sulla possibile indipendenza estetica delle sue parti. Le due opere fotografiche della serie Selfie mettono al centro la poetica dell’autocreazione, L’artista crea il proprio autoritratto con parti frammentate del proprio corpo, formalizzando inquietanti immagini in cui pezzi di arti scolpiti sono isolati dal contesto unitario del corpo, risultando immagini grottesche e macabre.
Il corpo si manifesta in quanto materia e decomposizione nella scultura di Gabriele Silli Superior/Inferior, così come nell’installazione Germinal 2024 “Lo scorticato”. Le opere sono composte da frammenti di carta che per accumulazione costruiscono una massa organica esaltata, tuttavia, nella sua disorganicità».
Nell’impostare questa intervista, ho ripercorso diversi passaggi della storia del pensiero circa, nello specifico, la corporeità. La riflessione contemporanea sembra incasellata in due grandi correnti di pensiero: il corpo biopolitico di Foucault per quanto riguarda la deformazione del corpo; il corpo post-umano, inteso come ibrido tra realtà eterogenee e differenti, organiche ed inorganiche, nella riflessione di Braidotti. Fondamentalmente, il corpo del post-umanesimo non è altro che la prosecuzione del corpo soggetto alla sorveglianza politica se si osservano bene le diverse inferenze. Forse, cambia la logica invasiva del controllo seppur rimanendo nell’alveo della deformazione e della trasformazione. Quali sono le nuove prospettive di indagine in cui si colloca, attualmente, la riflessione del e sul corpo?
«Credo che le tematiche attuali siano proprio quelle che esulano dal contemporaneo vero e proprio, inteso come anticipazione di qualcosa. Oggi si parla di fluidità del corpo come istanza sociale e politica. Tuttavia, la riflessione messa in atto dalla mostra si muove in chiave poetica, nel rapporto tra corpo ed esistenza. Ho voluto insistere sulla dimensione poetica del corpo, ricercare quella frammentazione che corrisponde al caos contemporaneo. Il corpo, al di là di tutte queste considerazioni, vuole sottrarsi da ogni discorso politico, sociale o di pensiero per riappropriarsi del corpo stesso. Come in Carmelo Bene, il corpo diventa più soggettivo, ancestrale e legato alla carnalità.
Penso anche all’opera di Martin Creed, Work No. 503, che fa parte della serie di Sick film. Un tentativo di manifestare aspetti interiori del corpo verso l’esterno: il gesto del vomitare, con il disgusto e fastidio che provoca nell’osservatore, rappresenta per l’artista un tentativo per esprimere i sentimenti nel modo più diretto possibile, facendo parlare un organo o un comportamento tipico del corpo attraverso immagini semplici e oscene. Con sottile ironia, l’artista fa riferimento all’action painting, utilizzando però il vomito come materiale pittorico e scultoreo».
Se pensiamo al rapporto tra il corpo e la sua rappresentazione, non possiamo non considerare l’impatto dei media di diffusione delle immagini di cui quotidianamente facciamo un uso – forse – improprio. Mi riferisco, ovviamente, ai social media e all’ipertrofia informativa che caratterizza questa nostra contemporaneità. Alla luce della sua esposizione, riprendendo sempre Foucault, in particolare il saggio Il corpo come luogo di utopia. Effettivamente, può, oggi, il corpo essere quel fulcro in cui riporre, in un certo modo, le nostre speranze utopiche?
«Considero il corpo punto di partenza fondamentale e le domande di Foucault ancora valide. Soprattutto circa la riflessione sul corpo e lo specchio, inteso come rappresentazione più tattile e materiale. Visto il tuo riferimento, rispondo con le parole di Foucault: “Bisognerebbe forse anche dire che fare l’amore è sentire il proprio corpo rinchiudersi su di sé, esistere finalmente fuori di ogni utopia, con tutta la propria densità, tra le mani dell’altro. Sotto le dita dell’altro che vi percorrono, tutte le parti invisibili del vostro corpo si mettono a esistere, contro le labbra dell’altro le vostre diventano sensibili, davanti ai suoi occhi semichiusi il vostro volto acquista una certezza: c’è finalmente uno sguardo per vedere le vostre palpebre chiuse. Anche l’amore, come lo specchio e come la morte, placa l’utopia del vostro corpo, la fa tacere, la calma, la ripone come in una scatola, la chiude e la sigilla. È per questo che l’amore è così vicino all’illusione dello specchio e alla minaccia della morte”.
Queste parole mi fanno pensare molto alle opere di Tatiana Brodatch, dove i corpi hanno le tracce delle mani dell’altro. Secondo me c’è ancora molto sommerso da tirar fuori. La carica erotica della carne è una tematica affrontata dall’artista attraverso le sue opere scultoree di corpi nudi e modellati che lasciano intravedere i gesti tattili durante il processo di realizzazione. L’opera video è un’animazione di sculture in pongo e di figure umane che si avvicinano in un rapimento sessuale che, lontano da una retorica pornografica, esalta invece la semplicità di un istinto carnale e sentimentale. La scultura in bronzo Una donna fluttua nella parete bianca rimarcando la nudità come gesto semplice.
O l’opera site-specific di Giuseppe Pietroniro che riproduce a matita, in dimensioni reali, una stanza da letto dalla prospettiva ambigua. La piattezza della parete accoglie un elemento “plastico”: un disegno che parte da L’origine du monde di Gustave Courbet, soggetto che l’artista sacrifica e scarnifica. La carta è utilizzata come materiale scultoreo, riportando alla dimensione materica del corpo, all’origine della vita stessa e alla sua inevitabile dematerializzazione. La stanza, il letto, il ventilatore diventano apertura spaziale, una “specie di spazio” all’interno del quale il visitatore si può sentire abitante oppure osservatore esterno.
Per quanto riguarda il corpo e i social potremmo aprire un lungo dibattito.
Ti chiedo un parere fondamentalmente personale. Che cosa il corpo può aiutarci a comprendere del presente che stiamo vivendo, dacché il reale sembra essere un’atopia in cui stentiamo a riconoscerci (nel riferimento a Baudrillard, Atopia del reale, utopia delle immagini, Kasperhauser, 2016)?
«Mi è capitato, recentemente, di riprendere alcune letture, tra cui Gabriel Garcia Marquez. Nel suo pensiero, la linearità del tempo e dello spazio si correlano all’elaborazione e alla catarsi della morte. Una volta, tutto era circolare, era qualcosa di normale e che richiedeva un’elaborazione necessaria. Oggi, spesso, la paura verso qualcosa di così incomprensibile e ancestrale non ci permette di elaborare a pieno questa escatologia. Ne deriva una nevrosi estremamente contemporanea, causa di una strutturata e costante deriva sociale. È necessario tornare al corpo per “redimere”, in una sorta di visione cristiana (senza alcun riferimento di carattere religioso). Ritornare al corpo come misura delle cose: in questo modo può essere vissuto come cassa di risonanza, un continuo memento mori che ci ricorda la nostra natura effimera.
È un discorso che oggi manca e potrebbe permetterci di riappropriarci di un certo controllo della nostra temporalità. Inoltre, può essere un modo per riapprofondire la relazione uomo-corpo-natura. Non esiste un contesto storico in cui non si debba scendere a patti con il corpo e con la sua finitezza: ci aiuta a comprendere un presente, eternamente presente; è carne, sacrificio, morte, putrefazione e, in un senso specifico e metaforico, la sua resurrezione.
È necessario passare attraverso la carne per comprendere la sua relazione con l’ambiente e la sua trasformazione, pur sempre tenendo presente la nostra mortalità. Continuo a giocare con le citazioni chiudendo con Artaud che, di fatto, apre il discorso sul corpo in questa mostra. Il corpo può aiutarci in quanto “Campo di battaglia dove sarebbe meglio che noi ritornassimo. / C’è ora il nulla, ora la morte, ora la putrefazione, ora la resurrezione” (Antonin Artaud, Quand la conscience déborde un corps, in Œuvres, a cura di Evelyne Grossman, Quarto Gallimard,Paris, 2004).