Otto angoli sono gli spazi interstiziali in cui se ne stanno rintanate le altrettante opere di Francesco Arena esposte in questi mesi allo Studio Trisorio. A distanza di sicurezza l’una dall’altra, guardandosi dalle estremità opposte delle due sale della galleria con un sentimento misto di diffidenza e attrazione. Ma quei cantucci costituiscono anche la loro precondizione di esistenza, che pare farsi specchio dell’isolamento nel quale siamo costretti per sfuggire al virus. Nell’introdurre questa mostra, che raccoglie in realtà lavori realizzati in un lungo arco di tempo, dal 2013 al 2021, siamo già incappati in due tratti che ricorrono nelle singole opere e, in generale, frequenti nella ricerca di Arena: la contrapposizione e il riflesso. Non aspetti formali ai quali si riduce il senso dell’opera, piuttosto espedienti estetici attraverso cui rafforzare il pensiero.
Una canzone che non si sente (ma si vede), un solido (liquido), un volume vuoto, un cubo a tre facce. La forma nitida e impeccabile che caratterizza i lavori di Francesco Arena si infrange ripetutamente sulla paradossale eppure inevitabile coesistenza di realtà che si oppongono l’una all’altra, e che allo stesso tempo si riscoprono interdipendenti, reciprocamente necessarie. Talvolta, anche, solo illusoriamente separate, più spesso sconfinanti. Come in Trittico del sapere, tre lastre metalliche lucidate a specchio sui cui bordi combacianti ognuna delle tre frasi riportate da Peter Handke, che ruotano appunto sulla condizione del sapere e del non sapere, si affianca e si confonde con il riflesso delle due vicine, sfalsando la percezione di quella realmente incisa e di quelle specchiate. O come in Endless, Nameless, il brano dei Nirvana iscritto sul nastro magnetico che sgorga da un tubo Innocenti, avanzando come un’onda silenziosa nello spazio della galleria: una presenza, quella senza fine del nastro di cui non si scorgono le estremità, che si realizza nell’assenza della musica, e che è anche in parte senza nome e dunque in un certo senso inesistente. Un impianto sempre assai esplicito nel lavoro di Arena, che è quello geometrizzante del terreno di incontro tra la materia e la forma, diviene qui funzionale a fornire coordinate spaziali e concettuali che derivano però da quelle culturali testimoniate dai due volumi (anch’essi tra le ‘materie prime’ abituali dell’artista) Extrême Orient ed Extrême Occident. Scritti dall’autore francese Marc Chadourne in seguito ai viaggi intrapresi durante la sua attività di inviato, i due libri, schiacciati nelle pieghe degli angoli corrispondenti ai rispettivi punti cardinali, appaiono come l’aporia più manifesta del bipolarismo con cui ci aiutiamo a situare noi stessi nel mondo, appiattendone la complessità in un perimetro quanto meno debole.
Lo dimostra a suo modo Monolite liquido nero, un volume compatto e perfetto di liquido lucido (olio esausto per motori) e tuttavia impercettibile in quanto monolite al di fuori del suo solido contenitore. O ancora, Elle capovolta, la cui scritta “Nous nous en souviendrons de cette planète” ci costringe a guardare in alto per tornare immediatamente con i piedi per terra, sulla nostra Terra, al pianeta di cui sempre ci ricorderemo, ovunque sarà l’altrove che ci attende.
Dall’apertura a singhiozzo delle mostre, esasperante, ci viene qualche consolazione: l’artista ci parla dei suoi lavori in un filmato messo online sul sito di Studio Trisorio, in quello spirito di apertura oltre i confini fisici dei luoghi dell’arte che sarà, speriamo, un retaggio positivo di questo tempo.
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