Francesco Arena ha vinto la XXVI edizione del Premio Pino Pascali, conferito ogni anno dall’omonima Fondazione di Polignano a Mare ad artisti non solo affermati ma in costante ascesa nello scenario internazionale e che per di più mostrino una predisposizione “pascaliana” verso la multimedialità e l’uso di più linguaggi e tecniche espressive. Ad assegnare il Premio 2024 è stata una commissione presieduta da Giuseppe Teofilo, direttore artistico della Fondazione Pascali, e composta da Francesco Guzzetti, storico dell’arte, e Nicoletta Lambertucci, curatrice presso la Tate Modern.
Per la prima volta nella storia del Premio (almeno di quella recente, dal 1997 in poi) la personale dedicata al vincitore non è ospitata all’interno del museo ma all’esterno, nel contesto cittadino. 30 altalene è il titolo dell’intervento progettato per l’occasione da Arena. Con il consueto fare tautologico, in cui idea progettuale e realizzazione concreta si corrispondono alla perfezione, l’artista nato a Torre Santa Susanna, nel 1978, disloca 30 altalene nello spazio urbano invitando il pubblico a interagire con esse, a compiere un viaggio nel passato, fino alla propria infanzia.
La nascita dell’altalena ha radici lontane, che risalgono alla mitologia greca, ma tra i molteplici riferimenti a questo gioco c’è anche un’antica tradizione di musica popolare: i canti all’altalena. Questi canti, nati nel Sud Italia e diffusi soprattutto in Puglia, consistevano per lo più in riti di corteggiamento e venivano definiti “canti all’altalena” proprio perché associati all’uso dell’altalena, su cui i cantori si disponevano spalla contro spalla e insieme si dondolavano cantando.
Le 30 altalene di Arena, dislocate in diverse zone della città di Polignano, in una piazza o affacciate sul mare, nei vicoli del centro storico o in aree residenziali al di fuori di esso, sono tutte realizzate in bronzo e recano ognuna un aforisma, una frase o una breve poesia.
Un intervento di arte pubblica, pensato per la città, che ora artista e direttore della Fondazione affidano alla responsabilità collettiva, consapevoli della sua utilità, quanto e forse più di fioriere e fontane. Le sculture di Arena ci ricordano di essere umani, essenza viva nello spazio, eternamente sospesi tra passato e futuro, tra ciò che siamo e ciò che diventaremo. L’intervento è a cura di Bruna Roccasalva, Direttrice Artistica di Fondazione Furla. La mostra, fruibile 24 ore su 24, è visibile fino al 13 ottobre. Le sculture al termine della mostra saranno dislocate in svariati centri della Regione Puglia senza rinunciare alla loro funzione pubblica.
Ti hanno conferito il Premio Pascali. Che valore assume per te questo riconoscimento?
«È un riconoscimento che mi fa molto piacere anche perché sono pugliese e vivo in Puglia, perciò, c’è un valore affettivo un po’ diverso rispetto ad altri premi».
Senti di avere un legame con la ricerca dell’artista o con il suo modus cogitandi/operandi?
«Pascali è un artista di 33 anni, parlo al presente volutamente. Il suo lavoro è tutto in divenire, potrebbe andare in tante direzioni diverse. Non è difficile rapportarsi a lui. L’aspetto più interessante per me è il suo lavoro sul fare scultura, su come rapportarsi fisicamente alla scultura».
Molti sono i riconoscimenti da te ottenuti in ambito internazionale. Qualcuno vede nel tuo lavoro una riattualizzazione dell’Arte Povera. Credi questo legame esista? Se sì, in che modo si esplicita?
«L’Arte Povera, come altri movimenti dell’epoca, ha ripensato radicalmente l’uso dei materiali legati al fare arte, questo crea più che un legame, dà origine a nuovi codici linguistici a disposizione di tutti gli artisti successivi».
Riguardo al percorso fin qui compiuto, quale ritieni sia un momento o un’opera di snodo per la corretta interpretazione della tua ricerca?
«Credo che il percorso di un artista non sia mai lineare. Le opere non scaturiscono una dall’altra in modo consecutivo, ma per salti in avanti e indietro lungo una linea temporale. A volte, per un periodo, scompaiono alcuni riferimenti che poi riemergono. Perciò non può esserci un’opera snodo ma diverse, alcune di queste contengono diversi aspetti fondamentali che poi si riallacciano con opere passate o danno seguito ad altre opere».
Per la prima volta la mostra che segue il Premio esce dalle sale della Fondazione e invade lo spazio pubblico. Da quale scelta/necessità è nata l’idea?
«Alla base di questa scelta c’è la volontà di cercare un dialogo con gli abitanti della città, dilagando nello spazio pubblico in modo però non invasivo ma discreto, con un’opera che chiede di essere agita e che si presta a diversi livelli di lettura».
Strumento dell’invasione gentile è l’altalena, uno degli elementi ricorrenti della tua ultima ricerca, già presentata nel 2022 a Monopoli in occasione di Panorama. Che valore ha assunto e assume oggi per te questo oggetto?
«L’altalena è un oggetto semplice, elementare; è un gioco che culla oppure scuote, ha un messaggio inciso sopra ma lo leggi solo se la contempli senza usarla; è una scultura su cui ti ci devi sedere; è un piedistallo instabile che si muove tra il presente e il futuro, come un pendolo».
Ricorre nella tua produzione l’interpretazione concettuale delle misurazioni, siano esse temporali e spaziali, spesso poste le une a confronto delle altre, le une sovrapposte alle altre. Quando è nata questa tua specificità linguistica?
«Guardando retrospettivamente mi sembra che sia una cosa presente nel mio lavoro da sempre. A volte scompare per un po’ e poi riappare. Il titolo di un’opera di vent’anni fa che riproduce la cella in cui fu tenuto prigioniero Aldo Moro è 3,24 mq, la superficie calpestabile dell’opera. Perciò l’interesse per le misure nel mio lavoro c’è da tanto. Mio nonno vendeva bilance e controllava la giustezza dei pesi e delle tare. Forse questo c’entra qualcosa».
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