Atterriamo in uno degli aeroporti di Città del Messico con molte aspettative e un’idea generale che verrà ben presto stravolta, e questo è inevitabile. Città del Messico conta oggi 25 milioni di abitanti e la previsione è di una crescita vertiginosa nel giro di pochi anni. Trovandosi su un altopiano a circa 2000 metri sul livello del mare, in questa stagione il clima è temperato, caldo ma con sbalzi capricciosi la sera. Nel giorno dopo la Festa della Costituzione (il 5 febbraio) le strade dall’aeroporto al centro città sono deserte e non rendono l’idea di quello che avremmo trovato poi nei giorni seguenti: un traffico asfittico, disordinato e impossibile. Le arterie principali sezionano la città in diversi barrios, i quartieri, alcuni dei quali letteralmente proibiti, perché purtroppo in mano alla criminalità organizzata. I barrios Polanco, Reforma, Roma, Condesa, invece, sono quelli maggiormente frequentati, con la più alta concentrazione di musei, gallerie e centri culturali.
La fiera Zona Maco è leggermente fuori dal tragitto, si raggiunge con taxi o uber a prezzi incredibilmente bassi (la media è di 4/6 dollari a tratta!). Il gigantesco padiglione Citibanamex ospita una fiera non enorme ma di ottima qualità, estremamente frequentata da un pubblico vastissimo di curiosi, addetti ai lavori, direttori di musei e grossissimi collezionisti. Gli stand sono davvero ben curati e alcune scelte del direttore fieristico Juan Canela – come ad esempio quella di lasciare ‘libere’ le piccole pareti di corridoio che inframezzano gli stand – hanno permesso di creare un percorso estremamente pulito e di facile fruizione.
Le aree ristoro e vip sono moltissime, e l’offerta è varia. Si scopre così che il popolo della fiera adora trascorrere ore seduto ai tavoli interni o nei suggestivi spazi all’aperto. Probabilmente la nota tradizione italiana di fare affari mangiando è qualcosa che abbiamo in comune con i nostri ‘cugini’ messicani. Ed è effettivamente così. Al bar si fanno incontri interessanti, si chiacchiera con curatori o galleristi e si promuove il proprio lavoro in modo agile e leggero, ampliando la propria rete di contatti.
Terminati gli appuntamenti in fiera, l’offerta culturale di Città del Messico è vastissima. Il museo antropologico è semplicemente spettacolare, si trovano manufatti provenienti da moltissime aree geografiche del paese e le sale, organizzate in una struttura architettonica a ferro di cavallo, hanno una seconda uscita sul giardino interno. Nonostante la folla, l’esposizione è comunque fruibile senza troppa fatica e gli spazi all’aperto sono di una bellezza e poesia disarmanti.
Un altro museo straordinario è quello del Palacio de Bellas Artes. In corso troviamo la splendida mostra di Federico Silva e in esposizione permanente si possono ammirare gli spettacolari murales di Rivera, Orozco, Siqueiros, Camarata e Tamayo. Quest’ultimo – fondatore e proprietario della collezione di arte moderna e contemporanea lì esposta – dà il nome al Museo Rufino Tamayo. Tra le mostre in programma che questo museo offre, spicca “Generalización” dell’artista Tania Pérez Córdova, curata da Humberto Moro, Deputy Director of Program alla Dia Art Foundation.
Ma la città non finisce qui, si potrebbero visitare altri moltissimi musei e centri culturali dai costi di ingresso bassissimi (un ingresso a prezzo pieno si aggira sui 4/5 dollari), così come si può passeggiare per gli splendidi giardini cittadini dalla vegetazione tropicale nelle miti giornate di sole o girovagare tra le gallerie del quartiere Polanco, proprio sopra il giardino botanico e il bosco del castello di Chapultepec.
Mi è capitato così di visitare la galleria CAM, che si presenta in una zona principalmente residenziale, all’interno di un edificio dall’architettura tradizionale messicana, basso e colorato: la parete esterna è azzurra e il grande cancello di ingresso rosa. La mostra è una personale di Gonzalo Garcia, “Flesh”, a cura di Charles Moore, curatore newyorchese. Tra le sale espositive spiccano gli ‘strappi’ installati a parete o i preziosi disegni su carta.
Se si ha la mia fortuna di avere amici che ti accompagnano a visitare l’entroterra Messicano, a pochi chilometri dalla città c’è il sito archeologico di Teotihuacan. Uscire dalla densità cittadina non è facile, occorrono quasi due ore di auto per percorrere circa 60 chilometri avvolti nel traffico di un generico venerdì. Ci capita di attraversare zone meno centrali, qui il paesaggio è molto diverso dall’urbanistica conosciuta sinora: le case sono tutte basse, a uno o due piani, irregolari e coloratissime, costruite perlopiù sulle necessità delle famiglie che vogliono ampliare la propria abitazione o costruirne una accanto per i figli ormai indipendenti.
Con in mano uno squisito pane e tamales fatto in casa iniziamo il nostro cammino attraverso le rovine azteche. Il tempio di Quetzalcòatl prima e la Calzada de los Muertos poi, mi lasciano senza parole. L’atmosfera è incredibile, la piramide del sole e quella della luna sono uno spettacolo inenarrabile, uguagliato solo dal paesaggio brullo e a perdita d’occhio. In lontananza si scorgono le sagome dei vulcani che hanno generato le pietre con cui tutti questi edifici – di cui purtroppo è rimasto ben poco – sono stati edificati. La ‘malta’ a basso contenuto di calce, utilizzata per mettere insieme i mattoni, non è stata in grado di resistere nei secoli; l’abbandono del sito di Teotihuacan ha fatto il resto. La ricostruzione parziale degli edifici ci dà solo un’idea di quello che fu un tempo questo posto.
I moltissimi venditori ambulanti riempiono l’aria con fischi che richiamano il suono dell’aquila o il ruggito di un giaguaro. Oltre alle stole e bracciali, vendono anche quello che viene chiamato l’oro azteco, un vetro nero di origine vulcanica utilizzato un tempo per osservare l’eclissi e studiare il cielo. Uno di loro per soli 50 pesos (circa due dollari e cinquanta) ci dà una dimostrazione pratica di come i quattro colori utilizzati per la pittura di piramidi (che ora appaiono di pietra nuda, ma un tempo erano intonacate di bianco e dipinte di rosso), palazzi e affreschi, venivano estratti dal mondo naturale. Il rosso deriva da una cocciniglia che infesta le piante di fico d’india, se unito al succo di limone assume un tono più chiaro e brillante. Il verde si estraeva dalle foglie del tabacco, il giallo da una varietà di crisantemi e infine l’azzurro, fissato al supporto con linfa di cactus, da una pietra di lapislazzuli.
Tornando in città la sera siamo guidati a distanza dall’angelo del Monumento a la Independencia. Apprendiamo che venne costruito su una solida e profonda base di pietra, mentre la città – che sorge dove una volta vi era un enorme lago ormai prosciugato – ‘scende’, colpa del costante consumo di acqua sotterranea che causa un abbassamento del livello del terreno. Come conseguenza ogni cinque o dieci anni al Monumento a la Independencia, viene aggiunto uno scalino in più per compensare il dislivello con la città.
Il traffico è qualcosa di mai visto prima, ma nonostante questo nessuno che provenga da una classe sociale media o abbiente utilizza i mezzi pubblici. Dalla zona della Catedral Metropolitana (la spettacolare piazza centrale) decido di provare a raggiungere il quartiere fieristico utilizzando come indicato su Google Maps la metro prima e il bus poi. La metro è pulita, un formicaio in movimento che si sposta senza sosta. Mi stupisce il vagone riservato alle donne e ai bambini al di sotto dei 12 anni. Lo utilizzo.
Il viaggio è veloce e in poco tempo arrivo al capolinea. Ora trovare il giusto bus è un’impresa, ma dopo qualche frase in un imbarazzante spagnolo capisco che posso salire sul camioncino della corsia 14. 12 pesos, ossia 60 centesimi, mi portano in breve al Centro Citibanamex. La porta del furgone si chiude dietro di me con uno strattone di corda da parte dell’autista. Nel breve tragitto, penso al colore del Messico, al suo folclore, alla sua vitalità, alle relazioni umane, e come italiana mi sento di capire almeno un poco le dinamiche di questo paese.
Finora non ho ancora parlato del cibo. Questo è il mio ultimo paragrafo. Il Messico riserva sapori ed esperienze uniche. I nostri amici ci conducono attraverso un percorso fatto a tappe. La prima sera assaggiamo dei tacos tipici nella nostra auto parcheggiata: il ristorante è solo una cucina sul ciglio della strada e i camerieri vengono a prendere le ordinazioni dal finestrino. Tacos al pastor, de suadero, de longaniza e infine de sesos, accompagnati da una bevanda all’ibisco. Il sapore tradisce l’economia del paese fatta di pastorizia e agricoltura. La terza sera assaggiamo tantissimi piatti, principalmente a base di tortillas preparate però in modo diverso tra loro: piatte, con il risvolto rialzato, di mais blu o a forma appuntita ripiene di una crema di fagioli.
I gusti cambiano e sono tutti molto diversi. Il delicato mole, composto da più di 34 spezie differenti e tra queste il cacao; l’huitlacoche, un fungo parassita del mais che gli aztechi hanno introdotto nella loro dieta; i fiori di zucca e ricotta; il maiale con il lime; il pollo. E poi le chapulines, ovvero cavallette. Fritte e sgranocchiate come stuzzichino o all’interno di piatti cremosi a base di guacamole sono uno degli ingredienti tipici della cucina Messicana. L’ultimo giorno assaggiamo anche i gusanos, larve rosse, e le escamoles, uova di formica fritte. Vincendo la resistenza della vista, scopriamo un sapore ottimo e particolare. Non poteva mancare al nostro viaggio culinario l’acqua con sale e limone, un margarita e il Mezcal tipico di qui.
Frequentando i molti ristoranti scopriamo che uno dei modi più cortesi e formali per chiedere il bis, ad esempio di tortillas, è questo: ¿Me regalas mas tortillas, por favor?. Letteralmente ‘mi regali’, forma di cortesia che significa ‘mi potresti portare’. È così che facciamo la scarpetta di guacamole con queso messicano al Caffè de la Opera, lo storico locale del centro dove è ancora visibile il foro di proiettile sul soffitto fatto dal rivoluzionario Pancho Villa. I Messicani che cenano accanto a noi ne vanno molto fieri, ci raccontano entusiasti le sue gesta, e il loro orgoglio affiora tra le parole.
Dopo otto giorni ce ne andiamo dal Messico con la convinzione che tutto qui sia parte di una cultura profonda e radicata nelle tradizioni. Arte, cucina, architettura e paesaggio riflettono tutte la luce del Messico. In questa settimana abbiamo avuto solo un abbaglio di quello che può raccontare questo paese; rimane la curiosità di esplorarlo ancora. L’appuntamento rimane fisso al prossimo anno, con l’edizione 2024 di Zona Maco. Nell’attesa, ¿Me regalas mas tortillas, por favor?
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