Garden of Trust: visual correspondece between Gluklya and Kati Horna – Gallleriapiù

di - 5 Maggio 2022

In una realtà definita dal controllo territoriale e dal conseguente vincolo ideologico, dalle tirannie, dal conflitto espansionista e dallo sfruttamento coloniale, il surrealismo nacque negli anni ’20 per esplorare mondi alternativi al sistema dominante e servì agli artisti come strumento nella lotta per le libertà politiche, sociali e personali. Le analogie con i nostri giorni non mancano e non è dunque un caso se questo movimento artistico si sta riaffacciando prepotentemente nelle mostre e nel linguaggio degli artisti contemporanei, seppur con un atteggiamento nuovo. Purtroppo, superficialmente si sta già parlando di una “moda” corrente, più che di una questione da indagare in profondità. Invece, queste “ombre” corrispondenti, tra ieri e oggi, tra le angosce novecentesche e il perturbante contemporaneo, si annidano negli angoli sporchi che non vogliamo pulire, o meglio, illuminare, essendo frutto del “vivere in tempi strani” dell’epoca ipermoderna, per citare Gianluca Didino.
Su questo tema, dopo l’overdose di opere esperite durante la pre-apertura della Biennale di Venezia, una piccola mostra a Bologna rappresenta un gioiello che brilla nel magma degli “opinionismi” pollice giù pollice sù sulla kermesse in laguna. Si tratta di “Garden of Trust: visual correspondece between Gluklya and Kati Horna”, presso Gallleriapiù, dove, per dirla con le stesse parole utilizzate da Cecilia Alemani per la sua Biennale, due artiste appartenenti a epoche diverse “adottano la metamorfosi, l’ambiguità e la frammentazione del corpo per contrastare l’idea dell’uomo unitario rinascimentale, in favore di un ibridismo, di una realtà, relazionalità e individualità fluttuanti. Storie di corpi disubbidienti che si ribellano alle visioni e alle rappresentazioni classiche”.
La mostra bolognese mette in relazione il lavoro di due artiste dalle biografie avvincenti. La prima, Kati Horna, nata nel 1912 e di origine ungherese, fotoreporter della guerra civile spagnola insieme all’amico Robert Capua per l’agenzia anarchica Spanish Photo Agency, che, con i suoi reportage e collage fotografici, ci ha regalato uno sguardo femminile della guerra, ritraendo la condizione delle madri combattenti e della gente comune, privilegiando il racconto alla notizia. Una gran parte di questo suo lavoro al fronte sembrò essere andato perduto fino al 2019, quando è stata ritrovata una valigetta con 600 negativi che aspettano di essere catalogati ed esposti. Perseguitata in quanto ebrea, cambiò svariate volte il suo nome e vagò per le capitali europee fino ad approdare in Messico nel 1939, dove entrò a far parte di tutto quell’entourage di intellettuali scappati dalla seconda guerra mondiale e confluiti nella corrente surrealista, come Alejandro Jorodosky, Frida Khalo e, soprattutto, Remedios Varo e Leonora Carrington, amiche e compagne di progetti artistici, soprannominate “le tre streghe”.
La seconda artista in mostra a GallleriaPiù è invece Natalia Pershina-Yakimanskaya, in arte Gluklya, autrice dissidente russa, che crea e indossa vestiti concettuali come statement che possano contaminare il mondo, pioniera di progetti partecipativi nei quali coinvolge diverse tipologie di persone estranee al sistema dell’arte per riflettere sui sistemi di potere che ci circondano. Nel 2015 è stata invitata da Okwui Enwezor alla Biennale di Venezia dove ha presentato l’opera Clothes for the demonstration against false election of Vladimir Putin, schierandosi apertamente contro le elezioni di Putin e le occupazioni del Donbass e della Crimea. Intimamente coerente al proprio sentire, in questi mesi sta sfilando per le strade di Amsterdam con i suoi Peaceful Dress contro la guerra in Ucraina.

Kati Horna – Oda a la necrofilia, 1962, Silver Print on Paper –22,3 x 19,5 cm. © 2005 Ana María Norah Horna y Fernández

Nella mostra bolognese è possibile vedere una delle serie più celebri (e raramente fruibili) di Kati Horna, Oda a la necrofilia, originariamente commissionata dalla rivista d’avanguardia S.Nob, i cui scatti originali provengono dall’archivio della figlia Nora. Come in una pièce teatrale, queste fotografie in bianco e nero svelano la storia di una donna, interpretata da Leonora Carrington, coperta da un velo nero, che incarna l’idea del lutto. Una finta maschera bianca messicana giace su un letto vuoto e disfatto mentre una candela accesa fa da contraltare all’assenza del defunto. Presto però la tristezza si trasforma in desiderio: la donna si accende una sigaretta, apre un ombrello nero che ricorda i quadri di Renè Magritte, si specchia e si spoglia fino a rimanere nuda, di schiena. La sottigliezza della narrazione svelata nei particolari e la perfezione della composizione ci confrontano con una artigiana della fotografia dall’istinto per l’istante perfetto. In mostra è inoltre possibile vedere una foto tratta dalla serie satirica Hitlerei del 1937, dove l’autrice politicamente impegnata ritrae le disavventure del dittatore trasformato in un uovo alla coque.
In altro modo, Gluklya le fa eco allestendo un teatro surrealista all’interno degli spazi espositivi, dove incontra persone di tutte le età ed estrazione sociale per parlare del tema della cura durante la pandemia, in un ambiente protetto, di fiducia e intimità. Da questi dialoghi nascono acquerelli e sculture rivestite da un tessuto nero semitrasparente, appese per i capelli al soffitto, che racchiudono, sotto una grande amigdala (la ghiandola che regola le emozioni), i feticci portati dai partecipanti. Queste opere, intitolate Vails of Sarrow and Hope e realizzate in collaborazione con la fashion designer Raja e gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, intendono sublimare il concetto di fragilità come forza invisibile, tanto sottovalutata quanto potente, e saranno “processate” con la performance Silence walk condotta da Glukya stessa durante la settimana di Arte Fiera per il finissage della mostra (sabato 14 maggio, dalle 19:00 alle 21:00).

Garden of trust, permanent installation by Gluklya, 2022, Gallleriapiù, Bologna. Photo credit Stefano Maniero, Courtesy Gallleriapiù e Gluklya

Entrambe militanti e attiviste, nell’arte di Gluklya e Kati Horna realtà e illusione si mescolano perfettamente, trasportando lo spettatore in mondi fantastici e sovversivi, creati da ricordi, ansie ed elementi weird.
Con le guance schiaffeggiate dal vento di guerra proveniente da nord-est e lo sguardo ferito dalla resistenza ucraina, dopo aver trascorso più di due anni ad ascoltare il bollettino quotidiano dei morti da Covid, davanti a queste opere non posso fare a meno di pensare a quanto e a come il nostro corpo abbia assorbito un linguaggio bellico che ci sta costringendo a trasformarci. Una metamorfosi che preme dall’inconscio, più che attraverso categorie pre-esistenti. Vicini al baratro, la domanda è antica: qual’è il senso della nostra presenza in questo mondo?
Nel silenzio della decentrata via del Porto, in una dimensione quasi domestica, riesco a raccogliere i pensieri più terrificanti e guardarli ad uno ad uno, per ritrovare quel sentire contemporaneo che Cecilia Alemani aveva ben individuato durante l’introspezione pandemica di preparazione alla sua Biennale ma che, in qualche modo, è stato poi atrofizzato dalle urla dei premiati, dei non premiati, dei troppi nomi e dall’ipocrisia delle forze di mercato.
Qui, riscopro l’autenticità del pensiero femminista e transfemminista, di linguaggi e modalità che stanno alimentando e trasformando quel grande, forse infinito contenitore che è la storia dell’arte e i sistemi di potere con la quale viene scritta.

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