In un tempo (non molto) lontano era di tendenza #IORESTOACASA. L’Italia della pandemia imparò a dire lockdown, definizione che fa figo come ogni inglesismo sfoderato in mezzo all’italiano. Pur non avendo il suono piacevole di brunch o opening, s’è tutti imparato a gestirla.
Chi pare esserci riuscito particolarmente bene sono gli artisti. No, non quelli «Che tanto ci fanno divertire»; qui parliamo degli altri, che l’ex premier Conte nemmeno contemplava ai tempi, e di cui Exibart continua a documentare i tanti progetti nati proprio in/da quel frangente.
Vero è che una botta di fortuna, un incontro fortuito, durante un lockdown aiutano. Così è successo ad Anto Milotta (Alcamo, 1984). E così #IORESTOACASA è diventato il titolo del progetto presentato al Museo Villa Croce di Genova, curato da Michela Murialdo, tra i vincitori di Cantica 21. Italian Contemporary Art Everywhere.
Visto che si scava un po’ indietro nel tempo, andiamo con ordine. Scandendo bene – come fa un hashtag – alcune parole chiave.
Genova: quella alto-borghese di Gino Coppedé, che lì ha vissuto, lasciando varie architetture. Una di queste è il riconoscibilissimo castello di Evan Mackenzie del 1890, meraviglia neo medievale che oggi si guarda a mo’ di astronave venuta da un altro pianeta. Sulla stessa scia, Coppedé firma altre quattro ville. Meno pretenziose del castello, erano state commissionate in zona San Fruttuoso dal Mackenzie, che ne vendette una all’ingegner Ernesto Umberto Martini. E siamo nel 1906
Casa: accade che nel 2006 la suocera di Anto acquista dagli eredi Martini l’edificio. Nel 2015 Anto e sua moglie Arianna Spanò vanno ad abitarla, iniziando a classificare tutto il ben di Dio offerto da quelle mura. L’archivio Martini è infatti una moltitudine di carte, foto e diari. Pezzi di un passato snobbato dagli eredi Martini, e rimasto a loro disposizione. Un po’ in stallo, finché il lockdown non ha messo tutto in moto.
Famiglia: da perfetti sconosciuti, i Martini dopo cento anni incontrano i Milotta-Spanò.
Inizia così il progetto, con l’artista che si ritrova a scavare nella storia di una famiglia come tante. Incrociandola alla propria.
Da qui in poi i parallelismi muovono una giostra di momenti in cui passato e presente s’incrociano, mescolandosi quasi senza soluzione di continuità. Arrivano senza impastare la loro naturalezza alla leziosaggine, animando un’infilata di 9 tavole; singole miscellanee che accorpano le planimetrie primo-novecentesche di Coppedé, a quelle della ristrutturazione post-2006. La stessa casa per due famiglie, due diversi modi di abitarla. Le differenze progettuali sono palesi quanto i cento anni di distanza.
Milotta però, che ci vede lungo, non vive di semplici comparazioni. Sospende il tempo, crea una situazione per cui distinguere antico e contemporaneo diventa azione labile. Per certi versi futile, sicuramente simulabile sotto fogli di acetato giallo a coprire le planimetrie primo-novecentesche.
Ingiallimento da tempo passato. Sì, però fluo, come il presente. Come una sorta di «Filtro contemporaneo» racconta l’artista. Appaiato al giallognolo-seppia – questo totalmente naturale – delle polaroid scattate da Milotta a Villa Martini, ogni secondo passato a separare le due famiglie pare una convenzione del tutto opinabile.
Rotazione di 180 gradi esatti, e dall’altra parte la vita tra le mura di Villa Martini ante-2006 si riaccende. Strizzata nei classificatori, in una dirompente selezione di cimeli che raccontano dell’ingegner Ernesto Umberto Martini garibaldino, combattente nella Terza Guerra d’Indipendenza. Dei suoi cinque figli e in particolare di Nena, assieme al marito Giuseppe Di Vita, morto nel 1930 in seguito a complicanze derivanti dall’arruolamento nella Prima Guerra Mondiale. Piccole e grandi cose di famiglia, con alcune curiosità che v’invitiamo a scoprire personalmente.
L’obbiettivo è arrivare preparati alla video installazione. Tre parti distinte, da approcciare con cautela. In particolar modo la prima, un girato in 8 millimetri in cui l’artista fa l’artista, arrogandosi quindi il diritto di auto-produrre ciò che non ha trovato: una pellicola che in tutte le sue sporcature racconti la villa ai tempi dei Martini.
Sublime “mistificazione” analogica, funzionale alla creazione di un percorso logico. All’innesto perciò di una seconda parte, una sorta di passaggio di consegne Martini-Milotta. Qui le mani di Anto e Arianna scartabellano per 3 ore – velocizzate in 20 minuti – i documenti ritrovati.
Condensare in 20 minuti non esonera solo dal passarsi mezza mattinata sul divanetto, che peraltro è pure comodo. La rapidità con cui scorrono quelle immagini produce un senso di oppressione destabilizzante. Uno via l’altro gli elementi di questa storia ti passano davanti, seguendo un tempo che non ti da il tempo di diventarne parte. Puoi solo affacciarti, piluccare, calarti per qualche secondo tra i ricordi di chi ha visto, ad esempio, il Ministero della Guerra.
Per tutti i 20 minuti passato e presente tornano a compenetrarsi. Milotta punta ancora sulla miscellanea tra media, sulla sovrapposizione documentaria: video nel video, una piccola finestra apre i ricordi analogici dei Martini alla contemporaneità digitale della famiglia dell’artista. L’archivio Martini si completa così in quella nuova realtà, fatta di instagram, di file e cartelle, e di chi vive l’epoca del certificato vaccinale come documento indispensabile alla vita comune. Alterata dallo stesso giallo utilizzato per le tavole, nonché aumentata dal suono familiare di “scrollate” e notifiche su smartphone in sottofondo.
La terza e ultima parte è una giocata a carte scoperte. È l’espressione di un pieno ritorno al futuro, di un qui e ora che riporta alla contemporaneità dei documentari girati tramite drone. Alla Villa Martini di oggi, compressa, stretta nell’urbanizzazione pressante che ha caratterizzato alcune aree di Genova.
Più che un finale un punto di ri-partenza: Villa Martini custodirà il suo passato analogico mentre attraverso la famiglia di Milotta continuerà a vivere. E ad archiviare.
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