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Genova è un paradiso che non può attendere
Arte contemporanea
Se è vero che “la vita è fatta a scale”, i palazzi storici di Genova – quelli dei “Rolli” – sono l’incarnazione della vita: a qualsiasi piano dovrai arrivare ne troverai sempre tante da salire, con pedate più o meno larghe e alzate alle volte decisamente importanti. Plot twist: dentro a Palazzo Nicolò Spinola, al 23 di via Luccoli, c’è pure l’ascensore.
Escamotage che tuttavia non garantisce un arrivo in grande stile al piano nobile del palazzo: l’entrata è dalla porta di servizio. Uno spazio piccolo e stretto. Con una pendenza tale da mettere in chiaro che per questa via non si andrà in direzione del mainstream facile facile, ma verso quell’emisfero dell’arte contemporanea “altra”. I come indipendente, A come autoprodotta, e quindi pure libera d’esprimersi, ribaltando all’occorrenza aspettative e concezioni unitamente alle logiche della fruizione artistica. Anche il primo contatto ufficiale con un servizio da tè, abbandonato discretamente in un angolo da Davide La Montagna, segue quella direzione.
L’emancipazione verso pregiudizi e preconcetti è il concept di tutta la mostra, tirata su con la sana “cazzimma” di chi per raggiungere l’obiettivo supera tutti gli inconvenienti del caso. Buone 80 opere, “tantine” diciamo, distribuite tra 22 giovani artisti. Artisti che, qualcuno lo doveva pur dire e in questo caso è stata Marta Orsola Sironi, «Per quanto siano meno rappresentati dal mercato, non vuol dire che non facciano ricerche serie». Sironi è curatrice del progetto assieme a Virginia Lupo, col sostegno di Ncontemporary di Milano, eastcontemporary di Milano, White Noise di Roma e UNA di Piacenza.
Giustizia sociale e ambientale. Disuguaglianze alimentate dalla necessità di categorizzazioni identitarie, che Paradise is exactly like where you are right now, only much, much better – titolo estratto da Language is a virus di Laurie Anderson – intende da par suo destituire, in favore di un approccio libero all’espressività individuale. La collaborazione poi di Untitled Association e MIXTA inserisce il progetto specifico in quello più ampio di Genova Art to Date: la Superba, capace di vantare «Delle eccellenze che meritano di essere raccontate meglio» sostiene Danilo Ruggiero di Untitled Association, sarà l’undicesima città ad avere la sua mappatura attiva della scena contemporanea.
E ce l’ha detto chiaro e tondo Sironi che qui non si è cercata «Una mostra pop-up», ma qualcosa di più duraturo e utile al contesto socio-culturale in cui ci si va a inserire. Resterà aperta fino al 10 aprile, peraltro andandosi a “modellare” nel tempo, grazie al supporto di altri curatori. Una bella smossa, Genova sentitamente ringrazia.
Una casa per il contemporaneo: Palazzo Spinola di Luccoli
Gli spazi sono “particolari”. Con virgolettato d’ufficio, perché calarsi in un palazzo dei Rolli è già di suo un’avventura. Entrare in questo è giocare a carte scoperte con la storia dei marmi, delle volte affrescate; di superfetazioni e rimodernamenti di dubbia riuscita, ma che comunque fanno indiscutibilmente la storia dell’ambiente. Accettato il pacchetto nella sua interezza, si lavora per renderlo un habitat coerente con le proprie intenzioni. Come hanno fatto le curatrici e i loro magnifici 22.
Di La Montagna si era già iniziato a dire. Continuiamo quindi con lui. Non perché qui si voglia dare una direttiva, a un racconto che direttive non vuole rilasciarne o farsene rilasciare; ma perché sono i suoi Stoned – oggetti recuperati e abbandonati in giro, come in attesa che qualcuno doni loro un senso – a pretendere e prendere l’attenzione. Una sedia, una pelliccia, un cappotto. Delle perle, delle tende, dei piatti. Hanno quel senso di nullità a dir poco perfetta: inanimati e fuori posto, riflettono storie non conosciute, forzate da una personalità accumulatrice. La Montagna ha assunto quell’approccio fondatamente marginale alla materia che rende vincente l’operazione, particolarmente in questo contesto. Puoi rendertene conto e regalare interesse, come passarci su.
Esercizio numero uno (e pure l’unico che proporremo, tranquilli): ricordare che l’arte contemporanea è sovente un effetto, determinato da una o più cause. Il legame tra le parti è sottile; romperlo è facile come pretendere di tracciare la distanza fisica – e non semantica – tra personaggio e persona. Tra un «Personaggio che si è mangiato la mia persona», come racconta di Doriano nel video di Daniele Costa, mentre scava nei ricordi di una vita. Mentre racconta di un sé inserito in un contesto ambientale specifico; favorevole per certi versi a maturare la propria sessualità (la calma del lago di Lago, provincia veneta, concilia le x segnate a ricordo dei rapporti lì consumati) e per altri socialmente ostile.
Fare arte contemporanea è curarsi di aspetti marginali infilandosi in una sorta di autismo visivo. Lo ha fatto Jacopo Rinaldi, che concentrandosi sulla nicotina assorbita dal regista Rainer Werner Fassbinder evidenzia la ghost track offerta dal linguaggio non verbale delle sue mani. Rinaldi rivolta la centralità di quell’intervista del 1978, concentrandosi sugli elementi a latere della comunicazione ufficiale. I frame disegnati a pastello, perfettamente fané come il video, incalzano come pop up rafforzativi del concetto.
Barocco genovese, contemporaneo internazionale e contaminazioni sul tema
È la Chiesa post Concilio di Trento ad aver “piegato” il Barocco alle proprie esigenze, insegnando al mondo intero come in un imprinting potentemente “decorativo” potesse essere sotteso un metodo narrativo profondo. Mai fine a sé stesso. Di pari passo col tema di fondo c’è quindi un Palazzo Spinola di Luccoli baroccheggiante da vivere. Così giocano bene con lo spazio e con la volta affrescata i grossi teli di Thomas Berra; mentre un certo Marco Siciliano quel Barocco pare prenderlo in contropiede. Sironi ce lo presenta come il più «Warbughiano» dei presenti. Un «Accumulatore d’immagini», alla maniera di Aby Warburg, che mappa e ricama su tenda le ferite altrui, individuate nella via crucis di cerotti spersi e sparsi per Milano. Un’organza leggera, scivolata a terra, con le sue pieghe che sanno di accettazione fisica più che di ascensione divina.
Dietro un linguaggio diviso tra ornamento e cliché si nasconde Matteo De Nando. E il suo discorso funziona. Particolarmente nelle piccole dimensioni di un lavoro che maschera per semplicità esecutiva, ciò che in realtà è una certosina, ossessionante, creazione di un finto strato di pluriball. Il più classico degli antistress è far scoppiare bolla dopo bolla. Per De Nando è generarne una dopo l’altra con la materia cromatica.
L’ornamento pare essere la valvola di sfogo di chi si accanisce sulla composizione, sfoderando impegno e pazienza al limite del compulsivo. Pensate a chi si dedica a lavori come l’uncinetto. O a chi, anche senza sferruzzare, si dedica a un progetto che ha senso solo nella successione/unione di ciascuna delle sue parti. C’è un po’ di Villa Croce – poteva mancare un filo diretto con il “Palais de Tokyo” dei caruggi? – sintetizzata nei contenitori in vetro di Murano pieni dei residui di gomma, con cui Nuvola Ravera ha cancellato i muri delle sale del museo. Per volumi e colori, il risultato si gioca rischiosamente l’effetto complemento d’arredo; corroborato peraltro da un certo dinamismo, dato da quantità di gomma diverse in base alle dimensioni della superficie trattata. E noi abbiamo un debole per chi rischia, puntando sull’abilità nel produrre un equilibrio pratico-teorico vincente. A mani basse.
Contraltare di ogni rischio è una sicurezza di nome Flavia Albu. Colei che più spassionatamente di tutti prova a fondersi col luogo: una grossa tela, una pittura dalla gestualità fluttuante come il panno che pare caduto a terra dal nulla. Un’istallazione amabilmente “di maniera”, il fine pasto che ti aspetti in un menù che fin lì ti ha dato molte soddisfazioni. Fortuna sta subito di fronte, perché entrare nel salone maggiore, alzare anche solo per sbaglio gli occhi e vedere la volta azzurro spugnato fa orrore. Si, orrore. Forse non dovevamo, ma l’abbiamo detto.