George Stamatakis, Atmosphere – Valentina Bonomo

di - 24 Novembre 2021

In genere un dipinto appeso a una parete pone un rapporto, tra il contenuto pittorico e lo spazio fisico dell’osservatore, indifferente, cioè che non varia mai, non si articola, che sia un’astrazione di Rothko o un dipinto di Vermeer (che pure sembrano essere insieme i pittori ispirativi del lavoro del nostro artista unendo la Veduta di Delft alle tele accostate nella Rothko Chapel).
Sono dipinti di paesaggio, l’artista greco George Stamatakis utilizza soltanto due colori a olio, il bianco di Titanio e il Bruno Vandyke: questo impoverimento dei mezzi espressivi tende a ridurre la ricchezza scenica dell’immagine, ridurre i particolari che hanno bisogno di altri colori, riducendo tra questi variazioni arricchenti di rapporti. Quindi i quadri sono fatti da pochi elementi, due per esattezza: terra e aria. L’aria lattescente, con ombre che scivolano orizzontali quasi impercettibili ma che riempiono la sensibilità percettiva dell’occhio, occupa i tre quarti del dipinto. La terra bruna, scurissima quando mima la vegetazione salendo in pennellate slabbrate dai sottile filamenti delle setole del pennello contro il chiarore del cielo, si apre più in basso, maggiormente chiara, in percorsi terrosi di prospettive e andamenti variabili. A volte tra cielo e terra si trova l’ombra azzurra di una lontananza, sempre terrestre, velata, citazione dell’azzurro delle estreme distanze rinascimentali e barocche.
Stamatakis sceglie un’approssimazione compositiva che riporta al paesaggio, che pure è ben descritto, e la pasta dell’olio non perde la sua sontuosa superficie, ora più attutita, silenziosa. Egli tenta, riducendo i mezzi, di produrre un effetto figurativo (di paesaggio solo, isolato, di natura senza l’uomo) completo. L’uomo c’è (assente dalla scena dipinta, come ogni riferimento alla civiltà: rovine, case, palazzi, città) e si trova nello spazio materiale della stanza dove è appeso il quadro. Stamatakis prevede la presenza dell’osservatore vivo come parte integrante dell’opera, legandolo alla scena dipinta attraverso uno stratagemma installativo che utilizza le parti non dipinte della tela, che circondano il riquadro pittorico, posizionando le tele in gruppo, allineandole in modo vario, sottilmente sfalsate, e posizionandole prevalentemente sotto l’orizzonte dello sguardo.

George Stamatakis, Atmosfera, 2021, installation view © Stamatakis

Il riquadro dipinto ha uno spessore sul piano delle tela bianca di meno di un millimetro e avanza verso l’osservatore quando all’opposto l’immagine descritta torna indietro tradendo, con l’illusione, la matericità dell’evento, anche se quasi invisibile (ma ben presente nell’approccio, insieme concettuale e fisico, dell’artista). La scena ritratta cade nel proprio vuoto, dentro la pellicola pittorica, e la mente cade anch’essa per credere, ma non più solo vedendo e riconoscendo, ma attuando un approccio fisico mentale, un approccio fisico della mente, ovvero che essa si sporge e cade nello spazio della scena: e questo è dato in basso dalla spessa banda orizzontale di tela bianca che va dal bordo inferiore della parte dipinta al bordo inferiore della tela; c’è lì un dover superare un limite che si trova esattamente tra spazio fisico dell’osservatore (della stanza e del muro bianco) e spazio finto della scena dipinta, e la mente cade in essa proprio perché la piramide prospettica è inclinata verso il basso dal posizionamento dei quadri sotto il piano orizzontale dello sguardo. Quindi l’osservazione della mente scivola su un piano inclinato e saltando l’ostacolo della fascia orizzontale di tela non dipinta cade, ed è precipitata, nella scena del paesaggio dipinto, e una fisicità della mente “crede” alla finzione pittorica, non del ricco verosimigliante ma del poco esistente che ha una sua pienezza e universalità.
Questa pienezza è l’orientamento del paesaggio che scivola a seconda che il riquadro pittorico si spinga fino ai bordi laterali della tela orizzontale o verticale, o che vada dall’alto al basso della tela lasciando delle fasce verticali laterali, o che le fasce opposte di tela bianca siano di dimensioni uguali o differenti, utilizzando spesso una scansione a più tele, accostandole senza farle toccare e disassandole di poco in altezza per far combaciare l’orizzonte del paesaggio pittorico, o altre volte allineando il bordo pittorico inferiore, sempre accostando le più grandi al centro e le più piccole ai lati, frammentando una similitudine che la mente coglie, tentando di unificarla, in un unico spazio (che valica le tele), o che la mente invece divarica in altre dimensione di spazi, di tempi, di direzioni che divergono nel mistero di un mondo o addirittura di mondi distinti che si somigliano.
L’installazione è talmente precisa e al contempo occasionale, ricostruibile, che l’artista ci interroga direttamente (dai dipinti fino a noi, dallo spazio finto dipinto allo spazio materiale dell’osservatore) sul nostro saper distinguere il nostro luogo di riferimento, rendendo incerte le nostre certezze, e al contempo tentando di confortarci con la presenza irriducibile di un Luogo che ci contiene, e che genera e determina le nostre reazioni, e da cui non possiamo sottrarci. Siamo vincolati al Luogo (è la nostra universalità), contenitore dei luoghi, e quel Luogo Stamatakis lo determina e lo cerca dalla ricchezza di mezzi ridotti al minimo e dai rapporti del piú essenziale numero di elementi.

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