“Che avrei fatto l’artista è stato per me chiaro fin da bambino, anche se non è stato facile dovermi misurare con le scelte che la mia famiglia aveva fatto invece per me”. Con queste parole inizia il mio dialogo con Francis Offman, nuova proposta della P420, che incontro a Bologna in occasione della sua prima personale in galleria, visitabile fino al prossimo 8 gennaio.
Classe 1987, originario di Buttare, in Ruanda, Francis arriva in Italia giovanissimo. Si forma a Milano, dove asseconda le richieste della famiglia e frequenta il corso di laurea in Scienze dell’Amministrazione. Ma la passione per l’arte – e per la pittura per essere precisi – lo porta a scegliere di abbondonare la carriera certa e a seguire l’esempio del fratello più giovane, a trasferirsi a Bologna e a iscriversi all’Accademia di Belle Arti.
Il nucleo più recente dei lavori di Offman – una quindicina di tele e di carte di diverso formato allestite libere, senza alcun montaggio – è disposto alle pareti della galleria bolognese con un ritmo sincopato che quasi sembra proiettare il visitatore in quel continuo gioco di rimandi tra le superfici, i colori e i diversi materiali che è protagonista in ogni sua opera. Una pittura sensoriale e carica di pigmento, quella di Francis, che mescola l’astrattismo occidentale – sua prima fonte di ispirazione – con il calore delle cromie tipiche della cultura africana. I verdi acidi, il rosso intenso, l’ocra si stemperano in un continuo succedersi di piani e di strappi che segnano la superficie come un’archeologia processuale: in ogni passaggio cromatico sembra presente l’azione pittorica e il cambiamento di stato. E ad un tratto il bianco arriva a segnare un contorno o un confine, un’interruzione fisica in questo flusso cromatico, donando all’intera composizione una tensione netta verso la forma e la geometria. “Non cerco la figurazione, non trovo alcun interesse in essa. Dipingere un corpo, trattarlo come pure forma, lo rende privo di vita e mi riporta alla mente ricordi non felici del mio passato, il genocidio del mio popolo”.
I suoi punti di riferimento, Offman li ritrova in Pablo Picasso e in David Hammons: dal primo ha appreso la lezione dell’astrazione; da Hammons il suo essere outsider, il suo modo diretto e imprevedibile di approcciarsi all’arte in cui si rendono evidenti le sue radici africane.
“Per ogni mio lavoro, c’è un tempo di attesa che può durare anche anni”. Le sue cromie, vivide e secche, sono ottenute mescolando il pigmento con gesso bolognese, colla e polvere di caffè – elemento naturale che permette proprio di non alterare la loro resa cromatica sulla tela dando loro anche un effetto di grammatura densa, di increspature e ruvidità alla superficie. Il procedimento parte dalla raccolta dei fondi di caffè che l’artista lascia sedimentare per lungo tempo prima che raggiunga l’idea che muoverà l’intera composizione. C’è poi l’attesa per l’imprimitura della tela e infine il procedimento di realizzazione vera e propria. “Il caffè entra nel mio procedimento lavorativo per caso”, mi dice. “Mia madre, tornando da un viaggio in Ruanda ci portò del caffè come regalo. Un dono semplice ma carico di valore simbolico e affettivo: in questo gesto di mia madre c’era la prova di come la lavorazione del caffè che ha segnato per decenni lo sfruttamento della mia terra d’origine, oggi, invece, sia divenuto il simbolo della sua rinascita. Una volta bevuto, non volevo buttare via la polvere che rimaneva. Sentivo che non era giusto staccarmene. Il caffè, d’improvviso, era divenuto l’elemento che mi connetteva in maniera diretta e concreta al Ruanda”.
La pittura di Francis Offman unisce in sé azione e memoria, arte e politica, storia e quotidiano. Non è un atto innocente, al contrario. Quella di Offman è una pittura che crea consapevolezza, una visione del mondo che si libera di ogni regola di produzione e costrizione per tornare ad essere pura.
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