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Gino D’ugo, quando l’arte diventa uno spazio relazionale
Arte contemporanea
A Roma, lo spazio Angolo Cottura ha recentemente ospitato la mostra, curata da Sabrina Vedovotto, “Ignora l’area danneggiata” dell’artista romano Gino D’Ugo. Per una sola serata, D’Ugo ha esposto le sue opere, una serie di cornici spezzate, intorno alla quale la curatrice ha parlato di come: «La forza, la determinatezza di una cornice, che detiene, che ingloba, che contrae, rotta, dispiegata […] non assuma più il suo valore intrinseco, ma provi ad autodeterminarsi nonostante la sua incertezza». Così, un elemento che potrebbe sembrare scontato, banale, appunto quello della cornice, acquisisce un nuovo lustro ponendosi come una soglia da varcare per costruire un dialogo con la propria interiorità tanto quanto con la società che ci circonda. Con noi, l’artista Gino D’Ugo.
Hai presentato una tua mostra presso lo spazio Angolo Cottura di Roma. Come è nata questa collaborazione?
«L’esposizione dal titolo “ignora l’area danneggiata” per Angolo Cottura nasce dall’invito di Iginio De Luca e Sabrina Vedovotto, un artista e una curatrice, con cui ho uno stretto rapporto di collaborazione e amicizia. Angolo Cottura è uno spazio all’interno del locale open space dove Iginio De Luca ha il suo studio e dove ha pensato di costituirne un luogo espositivo di carattere indipendente, nel quale invita di volta in volta un curatore a presentare un artista. Quando Sabrina mi ha telefonato per dirmi che voleva includermi nel progetto è stato un piacere accettare l’invito. Sabrina si è occupata della cura dell’esposizione dialogando con me sin dalle prime idee, seguendone la successiva realizzazione e presentazione fino all’allestimento».
Qual è il tema della tua esposizione e qual è il mezzo con cui hai voluto parlare al tuo pubblico?
«Il mezzo utilizzato ha un approccio versatile, contiene di per sé varie modalità di esecuzione. È un’installazione a parete composta da cornici scomposte e con evidenti fratture, di cui alcune parti nei loro aggetti escono dallo spazio bidimensionale della parete. La cornice è chiaramente intesa come ordine e quadrato mentale, fratturata e ricomposta come un trauma subito, indelebile esperienza al di là dell’apparire. Queste contengono all’interno elementi significanti di concetti che fanno fatica a essere ordinati: disegni, fotografie, parole, che distintamente o in comparazione sono frammenti di un’osservazione e dialogo col mondo che passa attraverso vari canali mnemonici, dall’intimo e privato a quello sociale».
Raccontaci la tua ricerca artistica, parlaci di come Gino D’Ugo interagisce con i luoghi, con il territorio, con le persone.
«Nel tempo ho cambiato approccio e modalità: sono partito dal principio per cui la scultura era una forma conclusa per arrivare a un concetto più aperto, di riverbero, utilizzando varie modalità espressive che vanno da forme più tradizionali all’uso della tecnologia e di pratiche relazionali.
In questo momento lavoro sull’interazione con le persone: creare uno strappo rispetto alla schematicità degli eventi quotidiani che schiacciano l’individuo in una dimensione di appiattimento banale, ripetitivo e occlusivo».
Le tue opere sono sempre molto legate al concetto di spazio. Un luogo, un limite, un’area di cui si traccia o meno un confine, una superficie, ma anche uno spazio intimo, un’introspezione. Come definiresti questa tua ricerca?
«Sì, questo carattere si fa evidente tanto in “tempo fertile” (installazione presentata al Gate26A di Modena nel 2019), quanto ne “La pratica inevasa” (16Civicodi Pescara, Dimora Oz di Palermo, Oratorio di Santa Maria in Selàa di Tellaro-collaterale Arkad per Manifesta 13, 2019/2020), ma anche nelle rassegne che curo per lo spazio indipendente di Fourteen in Tellaro, come pure in quest’ultimo lavoro. Mi interessa osservare i confini, i limiti, cercando anche le feritoie, opportunità per campi più aperti, ovvero dove lo spazio intimo e quello esterno si incontrano. La vera libertà dell’individuo, a mio parere, si rivela in queste connessioni».
Con quale occhio l’artista deve indagare il territorio e la presenza stessa dell’uomo in esso? Quali pensi siano gli impulsi che, più di altre suggestioni, muovono l’essere umano verso un rapporto più stretto con le Arti e più in generale con la bellezza che è al di fuori di se stesso?
«Con quello dell’attraversamento, della ricezione dal generale al particolare, dell’ascolto: il primo Situazionismo ha ancora molto da dire, la bellezza se guardata con occhi pregiudiziali ci sfugge. L’occhio può cogliere il non detto e la differenza nel particolare che a volte si rivela, la bellezza non è nell’ostentazione e nello stereotipo. A volte mi succede di tornare a casa e sentirmi ricco per lo stupore di un dettaglio e per uno stato ricettivo della mente, in questo c’è qualcosa di violento, una frattura in cui intravedo qualcosa di sacro e di profano».
Parliamo di contemporaneità. Le tue opere sono figlie di una ricerca iniziata dagli artisti del Novecento, quali di queste influenze senti più prossime alla genesi della tua linguistica? «Impossibile citarne uno solamente: sono stato influenzato tanto dai primi amori per Michelangelo, Modigliani e Arturo Martini quanto ai successivi incontri con Duchamp, Manzoni, Boetti, Beuys, fino alle frequentazioni con Giacinto Cerone o, per citare la musica, Giovanni Lindo Ferretti. La musica ecco, ascolto tanti generi, ci sono state per me influenze culturali dal Punk al Grunge; poi i libri e tanti artisti che vedo o frequento oggi. Sono talmente circondato da tanti e tali impulsi che se ci penso mi sento totalmente corrotto».
Quale rapporto pensi possa avere l’arte nel contesto contemporaneo?
«Il contesto contemporaneo è avvilente, di facciata, arrabbiato. Gonfio di arroganza, l’uomo è poco incline a prendere atto della situazione in cui si trova, oppure non vuole vedere intorno a sé, che è un peccato maggiore, preferisce l’interesse immediato alla lungimiranza e la stupidità padroneggia. L’arte ha per me un rapporto col mondo di critica e di restituzione del reale ma anche di cura, ricordo e salvaguardia. Ci sono comunque sempre finestre da spalancare, a volte anche rompendo qualche vetro…e qualche cornice».