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Giorgio Griffa, pittura in natura: due mostre a Torino e al Castello di Miradolo
Arte contemporanea
di Luigi Abbate
Giorgio Griffa è pittore-filosofo. Lo è stato e continua a esserlo, portando avanti la sua poetica con pugno di ferro in guanto di velluto. Il ferro sta nella straordinaria coerenza dell’assunto poetico, nel suo agire seguendo i presupposti teorici del fare arte; il velluto nell’inesauribile fantasia con cui da quasi 60 anni innerva un percorso espressivo originale, eppure in continua evoluzione. Teoria e pratica che si eran volute associare a una virtuosa consorteria d’artisti cui s’era dato nome di Analitici. Definizione di comodo, tempi andati. Invece di “associare”, parliamo delle peculiarità, compresi ad esempio i riflessi pittorici di garbo squisitamente piemontese.
Inside: una collettiva storica alla Fondazione Griffa
Non a caso Griffa, classe 1936, torinese ma artista internazionale, è al centro di alcune iniziative attualmente in essere nella sua terra. Anzitutto la nascita di una fondazione che porta il suo nome (fondazionegiorgiogriffa.org) e che, oltre a preservarne l’opera, intende proporre esposizioni a cadenza periodica.
A cominciare da Inside, a cura di Sébastien Delot, fino al 12 dicembre. L’originalità di vedere raccolti nel medesimo stabile di Torino ove ha sede la fondazione – l’ex edificio industriale Michelin -, artisti che, come lo stesso Griffa, proprio in quello stabile hanno, o avevano come Marco Gastini, lo studio – Luigi Mainolfi, Nunzio, Elisa Sighicelli, Grazia Toderi, Gilberto Zorio – rende il luogo ancor più prezioso. Come in una simpatica rimpatriata, le opere esposte di questi originali “coinquilini” paiono rispecchiarsi, coinvolgendo il visitatore in un gioco di sguardi che sfrutta la particolare disposizione delle pareti interne.
Una linea, Montale e qualcos’altro: Giorgio Griffa al Castello di Miradolo
Da Torino al Castello di Miradolo, splendido esempio di architettura neogotica situato all’imbocco della Val Chisone, proprietà della Fondazione Cosso che lo cura con sensibilità e buon gusto. Qui fino al 25 dicembre troviamo Una linea, Montale e qualcos’altro, che vede ancora Griffa protagonista, e la fondazione che porta il suo nome partecipare all’allestimento, a cura di Giulio Caresio e Roberto Galimberti.
«Pittura in natura, anziché la natura in pittura», è il motto che introduce le tre installazioni appositamente realizzate nel grande parco del castello. In Sei colori i tronchi di tre monumentali ginkgo sono abbracciati da tele di colori complementari, destinate a rimanervi per il tempo della mostra. Le 15 ceramiche bianche e blu di Una linea fungono da traccia per segnare un legame fra l’azione dell’uomo e l’impassibilità di madre natura, qui la carcassa di una farnia adagiata sul prato. In Un Filo corde bianche legate con nodi marinari a bambù giganti creano un disegno zigzagante.
All’interno, la visita consente di accostarsi al lavoro di Griffa assaggiando l’interezza dei suoi “cicli”. Dalle deliziose teline di fine ’60 alle Trasparenze fino agli arabeschi più recenti si consolida lo stretto rapporto fra la sua pittura e la musica, i cui parametri (melodia, armonia, ritmo, timbro) rendono profondamente vissuto il rapporto fra segno/colore e proiezioni sonore, tanto da far dire al maestro: «Ogni volta che un mio trasparente accede a uno spazio e si conforma ad esso, direi che i segni e le tele sovrapponendosi formano un percorso analogo a quello della musica».
Momenti di puro godimento visivo nei quali, tuttavia, a un musicista non sfuggono delicatezza e coerenza di pensiero che ne sottendono il rapporto con il suono. Trasparenti che si ritrovano in Montale, nel titolo della mostra, che rievoca la poesia del ’71, Arte povera, nelle cui parole il futuro Premio Nobel riflette sulla pittura. Nelle intenzioni di Galimberti che ha immaginato le associazioni musicali, l’ironia di Montale trova un correlato nella bachiana Kaffeecantate. Come le 44 Harmonies from Apartment House 1776 di Cage accostate ai Venti Frammenti. Realizzati nel 1980 e accolti al Castello nel 2021 in occasione della mostra di Paolo Pejrone, l’architetto che s’è occupato di parco e orto, queste “frazioni” pittoriche son tanto piaciute da restare nella collezione.
Anche qui, il presupposto estetico insito nel concetto di frammento trova un’assonanza con analoghe esperienze musicali. Coinvolgente l’incontro con i Bianchi, qui raccolti per la prima volta dalla loro comparsa fra fine anni ‘70 e inizio ‘80. Essenzialità degli arabeschi di non-colore che stimola la fantasia e si fa eccitazione nell’incontro con due tele che aggiungono un tratto e alcuni pois rosso-cardinale. Sobrietà del gesto pittorico cui fa eco il pianoforte dei Children Songs di Chick Corea. Canone aureo 980 suggella il percorso espositivo. Sedici metri lungo una parete dell’antico refettorio ristrutturato e adibito a serra, che fanno ancora riflettere sul rapporto fra spazio pittorico e tempo del suono.
La metafora di Orfeo che si volge a cercare Euridice, che a sua volta si dissolve alla vista del compagno, è come il consumarsi del tempo di una musica – qui il Reich di Duet. Un tempo che è in realtà di chi ascolta, e che si dissolve a poco a poco perché, come è noto, la musica non esiste ma esiste “per un certo tempo” solo chi la musica ascolta.
E proprio sotto la dolce ma inesorabile mannaia del tempo Griffa ci congeda, lasciandoci con l’illusione che l’incontro con la sua opera in questo luogo incantevole ci dia la forza per combattere l’imbrattamento del mondo, confortati dalla robustezza di quegli alberi superiori per durata al nostro stesso tempo.